A proposito della PNL. Una opinione filosofica (da Platone e la battuta float)


 

3.3.1 Libertà vs PNL

 

Rimanendo sulla PNL, ma nell’ambito del contesto che ci parla di un gruppo e dell’empatia tra coach e atleti è utile occuparsi dei concetti di rapport e ricalco che ritengo risiedere proprio sul lato opposto della luna rispetto al mio modello ideale di relazione in gruppo. La PNL sta oggi prendendo piede in maniera incontrastata nel mondo dello sport ed è doveroso riflettere sui suoi principi attraverso uno degli elementi critici che la caratterizzano e che, non a caso, riguarda proprio il rapporto tra allenatore e atleta. Nella PNL il rapporto tra coach e ragazzo è tutto in mano al coach, il quale utilizza il contratto formale che si instaura tra lo stesso coach e la persona che decide di essere guidata per raggiungere un obiettivo (la vittoria, la motivazione dei dipendenti in una ditta, la realizzazione di concreti obiettivi professionali).  Per raggiungere l’obiettivo il coach mette in moto dei meccanismi mentali del cliente che trasformano l’interlocutore e obiettivamente l’ aiutano con efficacia a colpire l’obiettivo (target). In questo processo il rapporto personale tra coach e la persona che si fa guidare assume un ruolo decisivo. L’insegnante di nuoto chiede al bambino che non sa nuotare di tuffarsi in acqua: il bambino lo farà solo se avrà fiducia nell’insegnante! Questo legame di fiducia, nella PNL, è chiamato rapport. Comunicazione e relazione, in questo caso, sono la stessa cosa: l’efficacia della comunicazione è dipendente dal  rapport che si instaura tra chi comunica e chi riceve il messaggio. Se la relazione, sotto forma del rapport,  è ottima, la comunicazione viaggia in autostrada, se non c’è relazione le parole del coach si incamminano su una mulattiera. In termini tecnici, il rapport è il ponte tra il coach e il cliente.  Fin qui tutto bene. Ma come stabilire questa relazione efficace? Uno degli strumenti proposti della PNL, forse l’unico, è il ricalco. Il ricalco è un procedimento artificiale,  costruito intenzionalmente al fine di stabilire una rapida ed efficace via di comunicazione tra coach e assistito. Il procedimento si fonda sulla retroazione, attraverso la quale il coach restituisce, attraverso il suo stesso atteggiamento, il comportamento che ha osservato nel suo interlocutore. Sembra una cosa complicata, in realtà stiamo parlando di un procedimento molto lineare e furbo. La faccenda è più semplice di quanto sembri e, consentitemi, per comprende il meccanismo del ricalco con esattezza dobbiamo entrare nell’ordine dell’idee che il percorso della retroazione sia un percorso truffaldino, anche se non c’è nulla di illegale ed è condotto a fin di bene. Il coach osserva le abitudini, il linguaggio, le parole calde (hot words) i comportamenti della persona trattata, che non a caso chiama cliente e restituisce quegli stessi comportamenti, allineandosi a quello che osserva nel suo interlocutore. Si tratta di essere un po’ ruffiani.  

    Ti piacciono i gattini? Sai, anche mia zia va pazza per i gatti. Da bambino ci giocavo sempre, adoravo un gatto bianco e volevo portarlo a casa, solo che i miei genitori non hanno mai voluto…

   Per un coach ricalcare lo stato d’animo di un atleta, i suoi gesti o la sua mimica, significa mettersi in sintonia con lo stato attuale del suo interlocutore, assimilarlo ed emularlo. Sono stato impressionato da una venditrice porta a porta di una nota azienda di vendite. Lei non lo sapeva, ma in quelle orribili riunioni per venditori era stata formata da coach PNL. Entrata in casa sembrava fosse una persona di famiglia, parlava con me e mia moglie chiamandoci per nome, ammiccando, assecondando tutte le nostre inclinazioni, rispondendo con condivisione ad ogni nostro interrogativo.  Il suo livello di istruzione era basso, ma il suo addestramento PNL molto buono. Dopo pochi minuti le regole erano chiare e il gioco cominciava a divertirmi.  La venditrice doveva bruciare le tappe, in mezz’ora al massimo doveva consumare tutto il suo repertorio. Il suo obiettivo era vendere un materasso ad un prezzo esorbitante ed in questo la PNL è molto efficace.

  Il nostro coach sportivo formato alla PNL ha più tempo per sintonizzarsi con il territorio e lo stato dei suoi ragazzi. Se riesce ad essere efficace ottiene che il ragazzo ritrova nella figura dello stesso coach il suo stato d’animo, il suo modo di vivere e di agire. Tutto questo accresce le possibilità che l’atleta veda nel coach un buon interlocutore, perché vicino al suo modo di essere. Il lavoro di ricalco deve essere meticoloso: rispecchiando i suoi atteggiamenti ed i suoi stati d’animo il coach ricalca le tracce che l’atleta inevitabilmente lascia (comunicando) lungo il tragitto nella sua rappresentazione territoriale interiore. Obiettivamente il percorso è bidirezionale: il coach dovrebbe anche farsi in qualche modo penetrare dalla esperienza concreta dell’atleta, non limitarsi ipocritamente ad assumerne le sembianze esistenziali. D’altra parte uno degli aspetti che rendono il ricalco così pratico ed alla portata di operatori non specializzati è che per seguire questa via; non è necessario interessarsi al contenuto dell’esperienza altrui, ma è sufficiente soffermarsi sulla sua forma. Per ricalcare una persona che si sente triste, non è necessario indagare i motivi della sua tristezza, basterà ricalcare il modo in cui essa vive l’esperienza della tristezza.  Secondo la PNL questo limitarsi alla forma non è negativo, anzi. Spesso il coach non raggiunge il proprio obiettivo perché pensa che per mettersi in rapport con una persona triste sia necessario sapere tutto sul perché è triste e poi cominciare a fare lunghi commenti su quei motivi e interminabili discorsi sulla tristezza e sulla felicità. Un tale atteggiamento non è alla base dell’instaurazione del rapport, anzi potrebbe essere d’ostacolo, specialmente se l’interlocutore non è disposto ad aprirsi esplicitamente. Se il coach invece si limita a partecipare alla forma della esperienza, troverà più agevole guidare il suo assistito verso uno stato d’animo idoneo a recepire ciò che vuole comunicare. Quando – attraverso il ricalco e la retroazione – il coach si rende conto di essere giunto alla sintonia desiderata saprà che è il momento opportuno per comunicare ciò che si era prefisso e che è all’origine del suo comportamento. A questo punto la persona, che prima era in stato d’ansia ed agitazione, sarà più ricettiva al messaggio e la fiducia provata nei confronti del coach sarà accresciuta dalla consapevolezza (conscia o inconscia che sia) che in “qualche modo” il coach e la sua proposta abbiano un ruolo nel suo star meglio.

Qualcuno può pensare che io stia esagerando. E allora è meglio leggere un classico esempio del ricalco, proposto da uno dei guru della PNL , Nick Owen, nel suo libro cult “Le parole portano lontano”. Si tratta del racconto noto come Il Cocomero.  

Molti anni fa nelle colline della Patagonia c’era un villaggio. I suoi abitanti stavano morendo di fame. Vivevano nel terrore di un dragone che era stato visto nei loro campi e loro non volevano andare a mietere i loro raccolti. Un giorno un viaggiatore venne al villaggio e chiese del cibo. Essi spiegarono che non ce n’era perché avevano paura del dragone. Il viaggiatore fu coraggioso e offrì di uccidere il dragone. Quando arrivò ai campi egli non poté vedere un dragone, solo un grande cocomero. Così ritornò al villaggio e disse: “non avete nulla da temere non c’è nessun dragone, solo un grande cocomero.” Gli abitanti del villaggio si arrabbiarono al suo rifiuto di comprendere il loro terrore e fecero il viaggiatore a pezzi. Qualche settimana più tardi un altro viaggiatore arrivò al villaggio. Di nuovo, quando egli domandò del cibo gli fu detto del dragone. Egli anche fu coraggioso e offrì di uccidere il dragone. Gli abitanti furono sollevati e allettati. Quando egli arrivò ai campi egli anche vide il cocomero gigante e ritornò al villaggio per dire che si stavano sbagliando sul dragone, non avevano bisogno di aver paura di un cocomero gigante. Essi lo fecero a pezzi.

Più tempo passò e gli abitanti divennero disperati. Un giorno un terzo viaggiatore apparve. Egli poté vedere come fossero disperati e chieste quale fosse il problema. Essi glielo dissero e lui promise che avrebbe ucciso il dragone così che loro sarebbero potuti andare ai campi a mietere i loro raccolti. Quando raggiunse il campo egli anche vide il cocomero gigante. Egli rifletté per un momento, poi estrasse la sua spada e fece il cocomero a pezzi. Ritornò dagli abitanti del villaggio e disse loro che aveva ucciso il loro dragone. Essi ne furono felici. Il viaggiatore si trattenne nel villaggio per molti mesi, tanto abbastanza per insegnare agli abitanti la differenza fra dragoni e cocomeri.

 

Non c’è alcun dubbio: questa strategia incide in modo radicale sull’esito di quello che potrebbe essere un colloquio di vendita, una dichiarazione d’amore o la richiesta di un aumento di stipendio. Il fattore che rende così potente ed irresistibile il ricalco è che, quando il coach ricalca il suo interlocutore, questi per poterlo rifiutare dovrebbe rifiutare il suo stesso modo d’essere. Se gli abitanti del villaggio avessero rifiutato la storia del viaggiatore che racconta di aver ucciso il dragone sarebbero caduti nuovamente in uno stato di ansia legato alla presenza del mostro. D’altra parte non potevano mettere in discussione l’esistenza del dragone perché il viaggiatore aveva calibrato il suo comportamento sulla loro storia. Nulla di nuovo: i troiani accettano il dono del cavallo perché quell’enorme cavallo di legno rappresenta ciò che essi vogliono. Il cavallo è la proiezione della soluzione per tutti i loro problemi. Poco importa come effettivamente stanno le cose!

Il racconto del Cocomero si colloca in esatta contrapposizione al mito della Caverna di Platone.  Quando ho letto l’apologo di Owen ho subito pensato al mito della Caverna di Platone (lo riproduco in appendice del libro). Le condizioni di partenza sono le stesse. Per Platone il saggio, il prigioniero che si libera e scorge la verità fuori dalle immagini proiettate nella caverna, quando torna a spiegare le cose come stanno realmente soccombe agli abitanti della caverna ancora in uno stato di prigionia,  esattamente come i primi viaggiatori nel racconto di Owen. Le soluzioni proposte da Platone sono politiche e filosofiche, ma sicuramente questo non è il luogo nel quale affrontarle.

Non ho dubbi, però, sul rifiutare l’apologo della PNL: applicare fino in fondo la scorciatoia del Cocomero ad un rapporto empatico tra coach e atleta è un modo di fare, contrariamente a quanto sembrerebbe dal testo, eccessivamente spregiudicato e violento. La violenza è nei confronti degli abitanti del villaggio, perché quando si usa uno stratagemma al posto della verità si commette un crimine contro la libertà delle persone.

Il metodo inoltre è quanto di più falso si potrebbe costruire. Per entrare in comunicazione con gli abitanti del villaggio il viaggiatore asseconda le loro credenze, facendoli sentire sicuri del fatto che lui sconfiggerà il dragone e ingannandoli sulla realtà. Se il coach, in modo del tutto funzionale ai suoi obiettivi, ha guidato una persona verso un miglior modo d’essere e poi le fa una proposta di comportamento, a livello inconscio la persona saprà che rifiutandola (ossia non ricalcando a sua volta il coach, non adeguandosi alla sua proposta) essa starà rifiutando anche il suo stato di benessere, che è vincolato (sul piano dell’esperienza) al rapport instaurato. Negli stati di disagio l’applicazione di questo metodo è deleteria:  la persona ricalcata, comunque, si trova coinvolta in un processo inconscio di identificazione con l’interlocutore che esercita un ruolo di potenza nei suoi confronti, e quindi sarà ricettiva a qualsiasi  proposta. Dato che la persona non riesce a trovare in se stessa le risorse necessarie a passare ad uno stato migliore d’essere, ella sarà disposta a seguire la proposta, docile proprio come un cagnolino ben addestrato. Il cagnolino segue il padrone e scodinzola felice, ma rimane uno schiavo.  

 Credo di aver dimostrato nel primo capitolo servendomi di Platone che l’obiettivo di un coach sia esattamente l’opposto: stimolare le risorse consapevoli dell’interlocutore al fine di trovare la propria strada, anche se questa ai fini del risultato sportivo dovesse non essere la migliore! Naturalmente sono molto labili i confini tra l’adozione sistematica e mirata di una strategia di ricalco al fine di ottenere il rapport più efficace al raggiungimento dell’obiettivo e alternative  più sbilanciate verso l’empatia sostanziale tra coach e atleti. 

Le categorie della PNL non sono campate in aria: in qualsiasi gruppo, tra singoli atleti, tra gruppo degli atleti e allenatore, può esserci rapport oppure no. Nel primo caso la comunicazione funziona, nel secondo è inevitabilmente destinata a fallire, questo a prescindere dalla PNL o dalle reali intenzioni del coach. Stabilire un rapporto efficace e comunicativo è fondamentale per raggiungere un obiettivo sportivo. Non parlo soltanto di vincere un campionato o scampare una retrocessione: il rapport (empatico) è fondamentale in ogni singola azione, specialmente nella pallavolo.

    Nella pallavolo, più che in ogni altro sport, abbiamo bisogno di atleti liberi, indipendenti e in grado di tenere aperto un canale comunicativo improntato alla collaborazione.

Abbiamo detto che il volley è un gioco open skills ed in ogni fase è fondamentale la gestione armonica e condivisa del gioco. Per quanto si siano evoluti i sistemi di comunicazione è praticamente impossibile che in un gioco in cui la durata media di ogni azione varia dai 3 ai 7 secondi (in funzione del livello e del genere dei partecipanti) il coach comunichi ad ogni alzata le sue preferenze all’alzatore che è in qualche modo responsabile degli schemi d’attacco. In un modello empatico tra allenatore e alzatore, l’allenatore non ha bisogno di comunicare ogni volta a chi e come alzare. Durante gli allenamenti e la frequentazione quotidiana, il processo di reciproca identificazione avrà portato l’atleta ad operare scelte in sintonia con quanto desiderato dal coach. Sono all’ordine del giorno frasi pronunciate dagli allenatori del tipo: “Con Giovanni ci comprendiamo con uno sguardo”, oppure, al contrario, “con Maria non c’è verso di farmi capire”. Al netto di errori di comunicazione formale queste affermazioni indicano l’esistenza o meno di un rapporto empatico tra coach e atleta. Anche la frase:

-L’allenatore preferisce alcuni giocatori che altri…

 in realtà potrebbe avere un significato più profondo di quanto appare. Con alcuni giocatori un rapporto di sim-patia esprime un rapport con la conseguente facilità di comunicazione che non riesce ad instaurarsi con gli altri.  E’ evidente che tra coach e atleta ci siano differenze sostanziali che possono frapporsi come ostacoli ad un corretto rapporto positivo di comunicazione. La prima, ovviamente, è quella sul ruolo (uno è il coach, l’altro l’ atleta), poi intervengono altre variabili: la differenza di genere, di età, di formazione, di cultura, di appartenenza sociale delle famiglie di origine. Per la PNL il coach interessato a calibrare il suo lavoro dovrà osservare la mappa del mondo del suo atleta, conoscere le hot words dell’atleta, le parole che per lui hanno un significato evocativo, riconoscere i segnali che indicano malessere o benessere. Aggiustando il tiro (calibrazione) su questo mondo di riferimento, collocandosi all’interno dell’orizzonte dell’atleta il coach potrà creare quell’autostrada referenziale che consentirà una comunicazione più agevole. In questo senso, premesso il warning su una strategia che mette una pistola con il colpo in canna nelle mani del coach, alcune metodologie del processo di calibrazione sono fondamentali per stabilire un rapporto empatico tra atleti e coach. Se questo rapporto viene costruito artificiosamente e l’atleta non avverte che il coach viva in maniera autentica l’ I care tutto suona falso e non ha alcun senso, anche se il coach rispettasse ogni più ferrea regola etica.  Se però abbiamo acquisito che nel rispetto della libertà reciproca il coinvolgimento umano tra allenatore e atleta è indispensabile e non facoltativo è doverosa un’ultima considerazione: un rapporto empatico non allontana da una (ipotetica) visione obiettiva e distaccata dell’atleta, ma al contrario fornisce un’apertura senza veli sui due universi, quello del coach e quello dell’atleta, senz’altro utile al raggiungimento degli obiettivi.

 Ecco, all’inizio di questa storia avevo minacciato che alla fine avrei formulato la seconda regola (la prima era niente alibi!) che un buon allenatore dovrebbe seguire. Credo che la regola aurea, naturalmente secondo me, sia quella che impone ad un allenatore di prendersi cura degli esseri umani che gli sono davanti, rispettandone l’autonomia e la libertà.
Un’ ultimissima considerazione su questo punto. Non voglio addentrarmi nei meandri di considerazioni psico-filosofiche sul rapporto di transfert e contro-transfert, il quale peraltro, in ambito sportivo, sarebbe tutto da dimostrare, almeno nei termini intesi da Freud. Tuttavia occorre spendere un minuto su questo aspetto. Anche qui è bene semplificare. Per farla breve dico che un transfert è la proiezione che l’interlocutore fa sullo psicanalista o, nel nostro caso, sul coach, di pulsioni, desideri, passioni che riguardano altre figure. Un ragazzo che ha un hpqscan0002cattivo rapporto con il padre, potrebbe trasferire sul coach la proiezione della sua figura di padre, creandosi aspettative che esulano dal ruolo richiesto al coach. E’ evidente che un coach maturo, che vive quotidianamente a contatto con i ragazzi, dovrebbe essere consapevole delle proiezioni che questi ragazzi spostano sulla figura stessa dell’allenatore. Ogni allenatore dovrebbe essere ben attento al fatto che i ragazzi spostano su di lui una serie infinita di bisogni, aspettative, affetti, delusioni. Allenare un gruppo per molte ore la settimana e vivere con i ragazzi il ruolo di coach in occasioni di eventi centrali per la sfera affettiva dei ragazzi, legati alle vittorie e alle sconfitte, al sudore in palestra, alla costituzione di un gruppo capace di lavorare e lottare insieme rende la figura dell’allenatore parte del nucleo centrale della vita degli atleti. Dal punto di vista tecnico dobbiamo saper sfruttare queste proiezioni proprio per comprendere a pieno la complessa personalità dell’atleta, indirizzandola, questo sarebbe già abbastanza, verso un atteggiamento che lo porti al giusto comportamento sportivo. Da un punto di vista etico… ripeto che basterebbe essere consapevoli della nostra posizione di assoluta potenza nei confronti dei ragazzi e utilizzarla per raggiungere gli obiettivi sportivi, stando bene attenti a non approffittarne.

4.2 Non siamo topi!

  -Tieni a dieta i topi!, ordinò il professor Skinner al suo assistente.  Chiuse la porta con la solita cattiva grazia e uscì dal laboratorio.

  -Dieta ridotta!, disse passando davanti alla finestra del laboratorio che affacciava sul vialetto di accesso al dipartimento “Edgar Pierce”, all’Università di Harward.  Tornò sui suoi passi e aggiunse:

dieta ridotta,hopper la troppa fame genera confusione! Devono mangiare la metà di quello di cui necessitano, devono aver fame, ma non troppa!, si sforzò di spiegare al suo assistente.

Il giorno dopo e i cinque giorni successivi il professor Skinner non tornò nel suo laboratorio. Il fatto non era insolito: a volte il professore si allontanava per qualche conferenza, a volte si chiudeva in qualche stanza per comporre le sue poco apprezzate poesie. Questa volte la moglie, raccontò più tardi, lo sentì lavorare di sega e martello, chiuso in cantina per l’intera settimana. Non osò disturbarlo. Al sesto giorno il professor Skinner si riaffacciò in laboratorio con un pacco voluminoso e pesante, incartato con i vecchi giornali che lo scienziato raccoglieva meticolosamente.

-Scartalo!, fece al giovane assistente, senza aggiungere spiegazioni.

-Ora ci occupiamo dei topi, intanto dieta ridotta anche per i piccioni!, intimò al ragazzo senza troppi convenevoli.

  Per Skinner le cose erano semplici, ogni fatto era una conseguenza di qualcosa: l’assistente lavorava per essere pagato, lui lo pagava regolarmente, la conclusione logica era che l’assistente doveva lavorare attenendosi scrupolosamente ai suoi ordini. Punto. Non c’era bisogno di altro. Il ragazzo, Tom, senza fiatare, scartò il voluminoso pacco che si rivelò essere una grande gabbia. The Skinner box, come la ribattezzarono i posteri, la macchina del condizionamento operante, secondo quanto si affrettò di chiarire con enfasi in una subitanea conferenza il professor Skinner. All’interno la gabbia era divisa in tre scompartimenti, uno per ciascun topo, si permise di dedurre Tom, che aveva in cura solo tre topi e qualche piccione. All’interno di ogni scompartimento una leva collegata ad uno strano meccanismo. “Abbassa piano, la leva!”, concesse Skinner a Tom che osservava curioso. L’assistente toccò con delicatezza la leva e il meccanismo lasciò cadere alcuni fiocchi di avena da un piccolo serbatoio posto in alto.

-Chiaro?, chiese Skinner.

-Chiaro!, rispose Tom, che senza attendere invano ulteriori spiegazioni, prese i tre topi per la coda e li calò ciascuno nel suo nuovo alloggio.

  Skinner estrasse dalla sua giacca vintage il suo taccuino, il lapis che usciva sempre da qualche tasca ( molto spesso per vergare le sue rime indigeste) e si accomodò su una sedia davanti alla gabbia. Tirò due righe a dividere in tre parti la pagina e le intitolò Mouse A, Mouse B, Mouse C. Poi fece cenno a Tom di sedersi accovacciato al suo fianco, intimandogli il silenzio con il dito indice dritto davanti alle labbra.

  I topi, superato lo smarrimento iniziale, presero a girare in tondo, come ad esplorare i piccoli ambienti loro assegnati. I tre scomparti erano divisi da due fogli di latta, per cui i topi non potevano interagire tra loro. In realtà si trattava di tre gabbie in una, ciascuna con la sua misteriosa leva e il suo serbatoio di fiocchi d’avena.

 Sicuramente il loro olfatto di topi affamati aveva avvertito la presenza dei fiocchi di avena, ma anche se ne intuivano la presenza, i bocconcini erano chiaramente fuori dalla loro portata.

 Il più fortunato fu il topo b. Quasi per incidente si trovò con le zampette anteriori sopra la leva, la quale, sotto il peso dell’animale, si abbassò di scatto. Dall’alto piovve un po’ di avena. Al sorcetto bianco non parve vero: affamato com’era si lanciò sulla manna piovuta dal cielo! Skinner porse un sacchetto di avena a Tom e lo pregò di ricolmare con cautela il serbatoio.  Poi cominciò a scarabocchiare al centro della sua pagina. Passò quasi mezz’ora che anche il topo C ebbe analoga fortuna. Il suo gesto fu più delicato e la leva lasciò cadere solo pochi bocconcini. Mentre Tom si avvicinava alla gabbia per rifornire i serbatoi, Skinner lo fermò con il braccio e gli intimò un perentorio -alt!.

  Il topo b, il primo gratificato dalla manna, si era avvicinato alla leva e con forza, questa volta utilizzando il muso, la premette verso il basso, procurandosi ancora un po’ di avena. Il topo b, cominciò quasi subito e a intervalli più ravvicinati a procurarsi il cibo, azionando coscientemente il meccanismo. Anche il topo C, provò e riprovò finchè non ricevette il suo premio. Il topo A, che per incidente non ebbe mai la fortuna di incappare sulla leva, sarebbe morto dopo qualche giorno di stenti.

-Che cosa è successo? chiese Tom dopo dieci ore di osservazione silenziose dei topi!

– E’ la teoria del condizionamento operante, giovanotto! , chiosò il professor Skinner che sul suo taccuino aveva scritto non più di tre righe per gli spazi denominati Mouse b e Mouse c. In compenso l’ultima pagina del suo blocco note conteneva la più orrenda poesia mai partorita da mente umana.


4.1 Lucky, Sally, Argo e Athos.

 

  Quando ho addestrato i miei fantastici cani sono stato tentato di utilizzare il sistema del professor Skinner, che invero si avvaleva anche di altri elementi oltreché quelli descritti nel racconto. Alla fine, complice mia figlia Sara, anche ai nostri amici a quattro zampe abbiamo insegnato a ragionare o almeno a fare qualcosa che potesse richiamare il ragionamento umano. A stimoli chiari e premianti abbiamo sostituito situazioni più incerte, contesti all’interno dei quali prendere decisioni. Insomma, tutti sono capaci a dare un bocconcino al cane e a farsi obbedire per ottenerlo. Proprio come un allenatore di pallavolo tradizionale, l’addestratore di cani, a forza di premiare una esecuzione corretta, crea un’abitudine. A dirla tutta ci sarebbe da aggiungere che al venir meno del premio il cane progressivamente disimparerà il comportamento. Comunque ancora una volta ci troviamo di fronte ad un sistema che funziona….fino ad un certo punto.  Il mio cane dovrebbe aver imparato con il sistema delle corrette ripetizioni a premi (=condizionamento operante) a non uscire dal cancello aperto quando sente il meccanismo automatico che si aziona, ma è anche bravo a riportarmi la palla che gli lancio. Cosa succede quando gli lancio la palla fuori dal cancello aperto? E’ divertente osservarlo. A me basta vederlo esitare un attimo e guardarmi con la speranza di avere un’ indicazione sul comportamento da seguire per capire che il cane è consapevole di trovarsi di fronte ad una situazione nuova che gli impone una decisione.  La vita è così!  Non sempre, neanche per un cane, ti trovi davanti ad una situazione binaria: fai la scelta giusta ricevi un premio, quella sbagliata rimani a bocca asciutta! A volte non esiste una scelta giusta, a volte le opzioni sono troppo complicate, a volte non hai le informazioni giuste o complete!

  Certo i nostri cani, quando si apre il cancello a volte evadono e a volte sembrano molto diversi da Lessie o Rin Tin Tin, sicuramente non si comportano come i topi del professor Skinner. Tuttavia alla fine abbiamo dei cani più veri e consapevoli di avere un rapporto più autonomo nei nostri confronti. Basta il mio Lucky per confutare Skinner e tutta la sua filosofia!   

  Anche un giovane atleta secondo alcuni fa qualcosa vagamente riconducibile all’apprendimento immaginato da Skinner: se gli dici bravo quando fa le cose giuste e gli tiri il mazzo di chiavi della palestra in testa quando sbaglia, alla fine farà quello che gli chiediamo. Ma vogliamo questo?


4.2.1  Il lato oscuro del pallone!

 

  La PNL è efficace, ma non crea campioni, così almeno come credo io, d’altra parte ben si adatta al metodo che abbiamo chiamato delle corrette ripetizioni.  Il metodo derivato da Skinner, nonostante le dichiarazioni contrarie dei guru della PNL, è al fondamento della programmazione neurolinguistica. Tutta la PNL si fonda su un presupposto: a determinate azioni corrispondono determinati comportamenti. Rafforzando alcune azioni con determinati strumenti (molto astuti), otteniamo dei comportamenti che incrementano la prestazione sportiva. A pensarci bene con la PNL si percorre lo stesso tragitto al ritroso. Proprio come per Skinner un comportamento esterno (la gratificazione) induce a mutamenti interni (uno stato d’animo positivo). Anche in questo caso lo stratagemma funziona. Non mi piace parlare a vanvera: prendiamo il concetto di ancora o di ancoraggio nella PNL. Prendiamo la definizione che se ne dà oggi su wikipedia: nella programmazione neuro linguistica (PNL), l’ancoraggio (anchoring) o ancora (anchor) è un processo di associazione di una sensazione fisica a una risposta interna. Viene utilizzato sfruttando uno stimolo sensoriale memorizzato per portare ad un cambiamento nello stato d’animo.

Come funziona tutto questo? Ancora una volta la teoria appare complicata, l’azione è banale. Non dimentichiamoci che la PNL è pensata per essere utilizzata da persone con una formazione molto settoriale. Poniamo che vogliamo creare nell’atleta uno stato di sicurezza nei propri mezzi sportivi. Lo induciamo a ricordare quando si è sentito sicuro della sua battuta e di quali sensazioni abbia provato quando ha eseguito un gesto efficace. Sempre wikipedia conclude: quando viene raggiunto lo stato d’animo desiderato, si ancora quella sensazione ad uno specifico innesco (trigger), ad esempio un particolare gesto con la mano. Si ripete il processo finché lo stato desiderato non viene condizionato dall’ancora. Ogniqualvolta si innescherà quest’ancora, questa riuscirà a portare il soggetto allo stato emotivo associato… Quindi all’atleta  ben addestrato da un coach pnl basterà ad esempio schioccare le dita (trigger) per riappropriarsi di quella sensazione di sicurezza emotiva riguardo ai propri gesti tecnici che in quel momento è ritenuta utile al miglioramento della prestazione. L’output, per dirla così, è sempre il comportamento desiderato. Per questo non mi stupisce che la PNL sia anche utilizzata per tecniche di vendita, per la fidelizzazione di politici ad un gruppo, per ottenere comportamenti performanti.  Una furba e dotta evoluzione della macchina per topi di Skinner!

  Platone e Chomsky si collocano dall’altra parte dell’universo. Nell’apologo del bambino e della battuta float ho reso, forse in maniera grottesca, uno dei più noti esperimenti pedagogici che è proprio raccontato nel libro intitolato Menone e che credo sia agli antipodi della filosofia PNL.  Socrate convoca uno schiavo e, dopo essersi accertato della sua completa ignoranza nelle questioni della geometria, lo induce, attraverso opportune domande, a dimostrare il teorema di Pitagora.

 Certo oggi le nostre conoscenze scientifiche e filosofiche si sono portate molto avanti. Questa storia dell’Ade proprio non regge! Sicuramente però molti concordano sul fatto che alcune “anticipazioni” delle conoscenze ci sono date da una serie di elementi. Sensazioni che immagazziniamo in maniera inconsapevole, imitazione, elaborazioni di precedenti conoscenze. Quasi niente ci viene calato dall’esterno, la conoscenza non è una scrittura in gesso su una lavagna nera.

  Io credo che soprattutto quando abbiamo la fortuna di avere in palestra Menone e Massimo dobbiamo comportarci alla stessa maniera di Socrate: non possiamo sprecare il software di chi ci sta davanti riempendolo dei nostri dati pre-organizzati.

  Certo anche se è evidente che non sia il buon Dio ad infonderci la conoscenza della battuta float (e le predisposizioni genetiche aiutano, ma non esauriscono la competenza), Massimo sa già molte cose. La prima cosa è che sa di non sapere. Sa che ha sbagliato tante battute ma possiede la struttura grammaticale per elaborare il gesto della battuta. Massimo sa anche che non è in possesso di una buona tecnica di battuta, ma, attraverso l’aiuto del coach, è consapevole di avere le possibilità di perseguire il suo obiettivo. Massimo soprattutto ha visto fare ottime battute float e le ha memorizzate. Ha memorizzato anche gli effetti positivi di una battuta float e sa che se la eseguirà bene saranno guai per gli avversari. Soprattutto Massimo vuole fare un’ottima battuta float.

 Allora dobbiamo tiragli fuori quello che lui già sa. Dobbiamo farlo nella consapevolezza che lui si convinca di aver trovato la risposta e dobbiamo fare in modo di confermargli la bontà di questa risposta.

  Una vecchia regola degli allenatori ci dice che si parte dal semplice e si arriva al complesso.  Allora è evidente che dobbiamo seguire la progressione che ogni allenatore conosce: prima si fa battere la mano di Massimo sul muro, in modo che comprenda cosa sia l’impatto stoppato e rigido della mano sul pallone, poi si fa lo stesso esperimento con un pallone trattenuto nella mano e battuto sul muro, poi lo si mette a tre metri da un muro, si cura prima l’alzata della palla, poi l’impatto della mano rigida sulla palla e via di seguito a manetta con tutta la progressione tecnica. 

  La cosa importante è che tutto questo lo scopra Massimo e che Massimo sia il protagonista assoluto della sua conoscenza. L’importante non è saltare qualche passaggio, oppure tornare indietro. Lo scopo da non perdere di vista è quello di cercare di elaborare insieme a Massimo il percorso di apprendimento, quello più adatto a Massimo, quello che solo Massimo può trovare. Tutto questo è faticoso e rischioso. Quando giocherò la finale del mio campionato è possibile che Massimo sbaglierà la battuta sul 14 pari al tie break, però quando avrà imparato non dimenticherà mai e soprattutto non avrò fatto violenza all’atleta e all’uomo. A volte Massimo metterà a frutto tutto questo dopo un paio di campionati e magari lo farà quando mi giocherà contro senza essere consapevole di fare quello che io ho tentato di agevolare… pazienza, sono i rischi del mestiere!

  Socrate non insegna a Menone cosa sia la battuta float, ma lo accompagna nel suo processo di apprendimento (verso la virtù) e lo aiuta a convincersi di quello che sta facendo.

  Per l’atleta la differenza sta tra imparare ad eseguire buoni colpi o essere un atleta in grado di eseguire buoni colpi.

  E’ poco importante se questo lo aiuterà a vincere il torneo del condominio o un’ Olimpiade, la differenza resta fondamentale.

  Infine c è anche un altro aspetto da tenere in conto. Ho già scritto una volta di troppo di non aver problemi a pensare che sia pieno di allenatori che insegnano la battuta float meglio di me. La mia autostima si sta ribellando: questi allenatori esistono, ma come dice Socrate… non li ho ancora incontrati. Scherzi a parte di questi bravi allenatori ne ho battuti molti e molti atleti allenati da me erano più efficaci rispetto a quelli allenati da altri coach più quotati e sinceramente più bravi. Come è stato possibile? Come è possibile che io possa battere un allenatore obiettivamente più bravo di me? D’altra parte come è possibile sovvertire i valori sportivi portando a vincere quello che fino a ieri perdeva? Certo, molto dipende dal materiale umano che abbiamo a disposizione, però tutto si giustifica con il fatto che esisterà pure il modo migliore per insegnare la battuta float, ma non è detto che questo metodo sia in mano a qualsivoglia allenatore. Allora posso anche concedermi di pensare che se lascio liberi i miei ragazzi di imparare, potrebbero imparare meglio di quanto possa insegnare loro il miglior allenatore del globo e quindi potrei anche arrivare a sconfiggere senza troppi meriti squadre allenate da allenatori più bravi.

  Credo che un buon coach debba essere rispettoso dei percorsi individuali. Mentre scrivo sto allenando Alessandra, una ragazza under 16 dalle potenzialità enormi, ma che ha appena iniziato a giocare. Ha difficoltà proprio sulla battuta float, mentre è già molto brava a muro e in attacco. Ieri in allenamento, dopo settimane di lavoro sulla float piedi a terra, ha voluto emulare una compagna ed ha eseguito una jump float senza alcuna preparazione da parte mia. Perfetta! Ne ha provata un’altra: perfetta anche questa. Come allenatore mi sono sentito frustrato, ma come uomo sono stato felice che la mia ragazza abbia trovato da sola la strada, compiendo personalmente quell’ultimo passo verso l’esecuzione di una discreta battuta.

  Uno dei tennisti più forti che io abbia mai visto giocare era Bjorn Borg, eppure un qualsiasi maestro di una scuola di tennis sarebbe inorridito dinanzi alla sua tecnica e al suo rovescio a due mani. Forse, se Borg invece di Socrate avesse avuto per maestro un bravo filosofo tradizionale, oggi starebbe affumicando baccalà in qualche porto del nord Europa. Invece da bambino o ha fatto da solo (non sono appassionato della sua biografia), oppure semplicemente ha trovato un maestro rispettoso della sua grammatica universale e della conseguente capacità di creare un linguaggio tennistico a lui adatto.

4 pensieri riguardo “A proposito della PNL. Una opinione filosofica (da Platone e la battuta float)

  1. Articolo molto interessante. ..Non sono d’accordo come è stata rappresentata la figura del coach….Nel coaching il coach non guida, e meno ancora ha in mano le sorti del cliente…Il coach accompagna, è un alleato…Il coach amplia la visione delle possibilità, fa notare incongruenze e sabotaggi che limitano la persona a raggiungere dei risultati. Il coach non consiglia mai!

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