Ho discusso con due importanti dirigenti di una importante organizzazione. Una donna ed un uomo, una cinquantenne ed un quarantenne. Storie diverse e formazione diversa. Eppure tutti e due erano convinti di una cosa: un dipendente alla fine si giudica per quante ore extra trascorre a lavoro. Se è in smart working poi il dipendente migliore è quello che è sul pezzo h24. Il caso non è certo isolato, la descrizione del fenomeno messa in campo dal sociologo Domenico De Masi è inconfutabile: “Dopo Taylor le aziende hanno smesso di ridurre l’orario di lavoro benché le nuove tecnologie e i nuovi espedienti organizzativi continuassero ad incrementare la produttività. …. nella quasi totalità delle aziende vige per i quadri e per i manager l’overtime non retribuito. Di cosa si tratta? Di una mistica quantitativa per cui un dipendente è tanto più apprezzato quante più ore di straordinario non retribuito immola alla frenesia onnivora del proprio capo.” (Domenico De Masi, Tag, pag. 359)
De Masi approccia la questione da sociologo, ma il problema è trasversale alla ingegneria organizzativa, all’economica, alla filosofia. Dal punto di vista funzionale un’azienda fondata sull’extra time non retribuito è un’azienda che non funziona: o sono sbagliati i processi, o gli addetti non sanno chiudere il proprio lavoro nei tempi assegnati, oppure semplicemente sono errate le proporzioni tra impiegati e lavori da svolgere. Dal punto di vista della grande scala economica è chiaro che questa sofisticata forma di crumiraggio riduce il numero di occupati.
La riflessione più interessante è però di carattere filosofico. Cosa vende la persona che si produce in performance lavorative fuori dall’orario di lavoro dovuto? Cosa vende chi non è capace di disconnettersi?
Indubbiamente quella persona sta vendendo la propria vita.
Non solo il proprio tempo, il quale entra necessariamente nella retribuzione, in quanto tempo necessario a portare a termine il proprio lavoro. Il dipendente che concede molte ore in extra time non retribuito vende il proprio tempo di vita.
Le cose allora sono due: o il dipendente a quel punto allinea la propria vita riducendola allo spazio professionale, oppure sta vendendo la propria famiglia, i propri interessi, i propri spazi spirituali, il proprio divertimento. Con lo smart working il lavoratore vende anche i propri spazi fisici, la sua casa, la sua cucina, la sua rete Wifi.
In entrambi i casi starà vendendo la sua parte più preziosa: nel primo stabilirà una equivalenza tra il proprio spazio esistenziale e la professione, nel secondo rinuncerà al proprio tempo di vita. Curioso che ci sia gente disposta a cedere la parte più preziosa della propria vita gratis.
Ancora più curioso che le aziende non comprendano che l’errore commesso è contro i propri interessi. Un manager saprà giudicare quanto è produttivo un dipendente alla sua dodicesima ora o alla sessantesima ora settimanale, ma non è questo il punto. Alla lunga si creeranno ambienti popolati di gente “alienata”, infelice, assetata del sangue e del tempo degli altri. Manager, impiegati, operai che non hanno più interessi, che hanno venduto i propri familiari al proprio capo, che non riescono a pensare una propria vita gratificante fuori dal proprio ambiente di lavoro, che si frequnteranno solo tra loro in amicizie incestuose.
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