Siamo tutti qatarini

… pur non qualificati ci laureiamo campioni mondiali di ipocrisia!

Mentre si celebrava il rito del mondiale qatariota e la nazionale marocchina si guadagnava il rispetto del mondo, portando per la prima volta una squadra africana in semifinale, si svelava il sacrilegio del Parlamento europeo: proprio marocchini e qatarioti avevano corrotto integerrimi parlamentari e funzionari al fine di indurli a parlare bene dei loro paesi. E allora facciamolo gratis, almeno su un blog insignificante, parliamone bene, un po’. Dimostriamo che hanno buttato i soldi, perché a leggere le ipocrisie con cui giornali e televisioni hanno condito i commenti sui mondiali di calcio non si può non provare un briciolo di simpatia per questi arabi.

D’altra parte noi italiani abbiamo iniziato la nostra opera moralizzatrice con una domanda grave e seria: giusto giocare questi mondiali in un paese così lontano dai nostri standard sui diritti civili? Noi che abbiamo soltanto tre morti al giorno sul lavoro, possiamo tollerare di giocare dentro a stadi costruiti nel deserto e che sono costati seimila vite umane?

Vabbè a noi la risposta l’ha data la Macedonia, facendoci fuori dai mondiali, ma si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, si sa che la gente dà buoni consigli, se non può più dare il cattivo esempio. E allora avanti con la morale.

Noi che abbiamo abolito il delitto d’onore da qualche decennio, possiamo accettare la condizione femminile nel paese con il PIL pro capite più alto al mondo?

Ci siamo dati subito una risposta, altrettanto grave ma plausibile: vabbè il calcio è calcio e chissenefrega. Avanti con Lele Adani e la Bobo Tv. Noi siamo culturalmente progrediti, mica gli arabi.

A questo punto gli altri, quelli che ai mondiali ci erano andati perché non avevano affrontato la Macedonia, hanno pensato: visto che ci stiamo te lo voglio dire. E allora la mano davanti alla bocca dei tedeschi, ma contro la FIFA che non ci fa indossare la fascia da capitano che avrebbe cambiato il mondo, tutti in ginocchio prima della partita contro l’Inghilterra e via dicendo.

Ci sarebbero anche gli iraniani, quelli sì, gente seria. Non cantano l’inno e a casa hanno famiglia. Poi perdono con gli Stati Uniti, come al solito. Se sei solidale li fai vincere, almeno su un campo di calcio. Non ho cantato l’inno ma ho eliminato l’imperialista americano: scarcera i miei fratelli.

In realtà, se è vero che il Qatar è un posto difficilmente comprensibile agli occhi occidentali, è anche vero che questi stessi occhi occidentali ci vedono bene quando vogliono fare affari con sceicchi ed emiri.

Soltanto a novembre la Germania, il paese che più al mondo sembra voler uscire dall’uso di idrocarburi, ha stipulato un accordo di fornitura per il gas qatariota.

Ma che non si dica: a siglare il patto non è stata una società dell’energia tedesca. Il contratto è tra il gruppo statale QatarEnergy e ConocoPhillips, una multinazionale degli idrocarburi statunitense che rivenderà ai tedeschi. Questa ipocrisia tedesca deve avere una ragione che non conosciamo, sì perché gli affari tra tedeschi e qatarioti sono sotto gli occhi di tutti. Leggiamo sul Manifesto che secondo Fair Finance International la sola Deutsche Bank ha contribuito alla realizzazione di questi mondiali con il 42% dei finanziamenti europei, 15,7 miliardi di dollari. In Germania il Qatar – con quote di Porsche, Volkswagen e accordi energetici importanti – detiene una partecipazione del 6,1% in Deutsche Bank (ma anche nel Credit Suisse) attraverso l’ex premier Sheikh Hamad bin Jassim al-Thani. Il maggiore investitore europeo in Qatar e in obbligazioni sovrane qatariote è Allianz, con oltre 4 miliardi di dollari.

Già sappiamo del Paris Saint German, una specie di circo Barnum di proprietà del Qatar Sports Investments.

In Italia i fondi del Qatar hanno investito nel marchio Valentino e gettato una manciata di miliardi di dollari in alberghi e centri commerciali. La Costa Smeralda e Porta Nuova a Milano sono qatariote.

Con una mano puntiamo il dito, con l’altra prendiamo i soldi.

Ma non basta. Pecunia non olet e se questi pagano ci deve essere qualcuno che vende. Basterebbe ammetterlo.

L’ipocrisia ben più stucchevole è quella del pregiudizio culturale.

Per tutta la manifestazione siamo stati a puntare il dito sui comportamenti, invero piuttosto castigati, degli emiri. Eravamo talmente presi dal ruolo di Savonarola che non ci siamo risparmiati la morale sui giocatori argentini piuttosto maleducati con gli olandesi, su Ronaldo che piange come un bambino, sul portiere che usa il premio del migliore come un simbolo fallico.

Sono stati i mondiali della riscoperta della morale borghese.. agli altri. Tanto da noi il campionato ricomincia nel 2023 con la più potente squadra accusata di un clamoroso falso in bilancio e il nostro Governo pensa ad una comoda rateizzazione dei debiti delle società calcistiche verso i loro dipendenti e il fisco.

Sia chiaro, il mancato riconoscimento dei diritti alle minoranze e ad ogni “diversità” è fatto gravissimo. Certo che noi italiani a leggere certe dichiarazioni di politici che ricoprono importanti incarichi non siamo da meno, ma almeno non mandiamo in galera gli omosessuali. Almeno per ora. Per il futuro Adinolfi potrebbe vestirsi come un emiro per dar forza alle sue idee, ci vorrebbe un po’ di stoffa, ma l’immagine sarebbe autorevole.

Fino alla finale non avevamo fatto abbastanza. Dovevamo fare di più. Il nostro pregiudizio culturale ha mostrato al mondo le vette della nostra cultura occidentale con la stupida polemica sul bisht con cui quello che paga lo stipendio a Messi lo ha incoronato campione dei campioni. Eh, già, quell’abitino è più o meno il corrispondente della nostra corona, magari di alloro, solo che noi siamo noi, con i nostri sacri simboli occidentali e loro…

Allenare la fortuna! Prefontaine

Si può allenare la fortuna?   Capisco la domanda. Chi fa sport sa bene che in qualsiasi momento un colpo di fortuna o di sfortuna fa la differenza. 

La domanda giusta però è:

come si può allenare la fortuna?

La fortuna si allena soltanto in un modo: sfidandola.

La fortuna aiuta gli audaci, ci dice Virgilio. La cosa non è tutta farina del sacco di Virgilio. Il detto è riferito a Turno che esorta i suoi ad attaccare Enea.

Turno muore nel duello contro l’eroe che poi dara vita alla storia di Roma. Turno parla di fortuna, ma è un eroe sfortunato. 

La traduzione è anche sbagliata.  Audentes fortuna iuvat, dice l’antagonista di Enea. Non audaces

C’è una bella differenza. Audentes sono i valorosi, i coraggiosi. L’audax è invece quello sfrontato, il temerario, l’impavido arrogante. 

Se voglio allenare la fortuna debbo essere valoroso, non smargiasso. Il confine è sottile. 

Il coraggioso conosce il suo limite e confida di poterlo superare con un po’ di fortuna e tanto valore.  Gli ispanici hanno un bel termine: confiancia.  Chi ha la confiancia, la fiducia, la sicurezza, ma anche la familiarità, è senz’altro un passo avanti verso l’aver fortuna.

Allenare la fortuna significa prendere confidenza con il massimo che si può ottenere da se stessi. Alleno la mia fortuna andando ogni giorno a sfidare il mio limite. Cercare di ottenere sempre il massimo, senza calcoli, è il modo giusto di allenare la fortuna. Nel far questo metto in conto la sfortuna.  

La storia della fortuna nello sport può essere raccontata parlando di Steve Prefontaine,   leggendario mezzofondista statunitense. Il Pre, visse il limite tra audens e audax. La sua biografia ha tutto dell’eroe maledetto. Le vittorie, le gare condotte tutte sempre in testa. L’idea geniale di fondare la linea di scarpe Nike. La sconfitta nella finale olimpica di Monaco. Una vita con il piede schiacciato sull’acceleratore, conclusa con la morte in un incidente automobilistico a 24 anni. Un uomo di grande fortuna, che muore per una tragica sfortuna. 

Era il più amato e il più forte dei mezzofondisti statunitensi degli anni ’70. Su di lui sono stati girati due film, dalle sue parti  è ancora un mito ed a lui è dedicata la tappa della Diamond Leauge che si tiene ad Eugene, la sua città. 

A Monaco nel ’72 il ritmo è lento. Pre ha vinto i trials. E’ atteso. Si sente in trappola in quella gara tattica.  Mancano quattro giri. Milleseicento metri. Non pochi. Parte. Lo segue Lasse Virén, una leggenda. Dietro, a fatica, Gamouddi.

Ultimo giro, sul più bello, viene superato dal finlandese, poi dal tunisino. E’ terzo. No, ecco che spunta Stewart, atleta di Sua Maestà. In due secondi ci sono i primi quattro. Prefontaine è fuori dalle medaglie.

Sfortunato.

E’ lui l’eroe di quella gara. 

La sua tattica nei cinquemila era sempre la stessa:  partire a tutto gas…ed arrivare al traguardo nella stessa maniera. Non sempre è andata come a Monaco, anzi.

A volte era fortunato, i suoi avversari cedevano di schianto prima di lui. Ma non vinceva per fortuna. Le sue vittorie e i suoi record non dovevano nulla alla buona sorte: Steve si divertiva a scoprire se avesse ceduto prima o dopo il proprio avversario più valoroso.

Se non stai lì, sul limite del baratro, non scoprirai mai se la fortuna è dalla tua parte. 

Ottenere meno che il tuo massimo significa sacrificare un dono, sosteneva Prefontaine.

Il dono della fortuna che hai o non hai coltivato, aggiungerei.

La parola aiuta a vincere

Bla, bla bla. Si vince sul campo! Verissimo, si vince allenandosi e giocando meglio dell’avversario. Neanche vale la pena di ripeterlo.

Costruire una storia intorno ad una squadra aiuta a vincere sul campo. Coinvolgere l’ecosistema di un team è fondamentale per aiutare i ragazzi che praticano uno sport a superare gli avversari. Il saper costruire una storia, utilizzando gli strumenti giusti per farla conoscere, è senz’altro fondamentale per una squadra di pallavolo, ma anche per un’azienda, una no profit, una comunità. Ma non parliamo di storytelling: la parola va vissuta prima di essere raccontanta!

Un video racconta alcune esperienze positive.

Il sequestro / device 7

La Kawasaki KLR 570 bialbero, forse un po’ smarmittata, fa un gran casino. Mohamed la sente da lontano. Mohamed riconosce il rumore di moto che fanno casino. Arrivavano al suo villaggio in Senegal e ogni volta sarebbe stato meglio che non fossero mai arrivate. Per questo è percorso da un fremito quando sente il rumore della kawasaki KLR 570 che si avvicina. Un riflesso condizionato lo mette sulla difensiva. Estrae il suo Iphone dal bomber sportivo. Inquadra nella camera la moto che si avvicina. Comincia a far foto, poi condivide tutto su Instagram. Subito. Fare in fretta fa la differenza. Ora ci sono già due, tre, quattro feed: il motociclista che guida, scende, si toglie il casco, si avvicina…

Non si sa mai, pensa Mohamed. Già una volta, a Tripoli, si è salvato la pelle mandando in giro le foto dei libici che lo avevano preso.

Con lui c’è Pedro, è messicano. Un piccoletto. Il mio gancio. Indossa lo stesso bomber di Moahmed, quello della sua società, la Sìsport. Anche lui estrae la sua arma, un foglietto giallo sgualcito, la carta della Prefettura. Con quella, gli hanno detto, può girare tranquillo. Relativamente tranquillo.

Li trovo così, uno con un Iphone che mi scatta foto e l’altro con un foglietto giallo in mano. Poggio la moto addosso al rudere della Mira Lanza. Da bambino ci venivo a ritirare i premi guadagnati con i punti. Tutte le famiglie facevano i punti. Anche io ho un riflesso condizionato. Sono contento e penso alla mia infanzia felice, quando la felicità era data da un pupazzo gonfiabile di Susanna. L’edificio è abbandonato, ma dentro c’è vita. Qui si spaccia e ci si prostituisce. Dicono. Percepisco che dentro c’è vita, sento dei rumori, vedo ombre che si muovono. Sta succedendo qualcosa là dentro.

Scatto giù dalla sella. Ostento agilità. Uno sforzo che avrei potuto risparmiarmi. Do la plastica idea di quello che sono: un cinquantenne su una vecchia moto che non si arrende all’evidenza. Davanti a me ho due podisti veri. Gente in grado di correre i 5.000 in meno di 15 minuti, i 10.000, in gara su strada, in 30 ed una mezza maratona in 1h06′. Sono qui per questo.

Podisti migranti.

Un post da almeno diecimila visualizzazioni sul blog di una nota rivista per runners. Un centinaio di euro per me e un po’ di pubblicità. Magari la cambio questa marmitta.

Osservo la mia coppia di podisti migranti.

Un ventenne del loro livello non avrebbe problemi ad essere arruolato in un gruppo sportivo. A patto di essere italiano, penso. Invece questi due stanno aspettando me davanti alla Mira Lanza. Non sanno niente di Susanna. A loro non ne verrà nulla da questa storia. Anzi. Con questo post entro nel club di chi ci guadagna sopra.

Ci salutiamo da dieci metri, con un cenno della mano. Non si avvicinano, eppure ormai deve essergli chiaro che io sono la persona che stanno aspettando. Mohamed si aggiusta l’auricolare e ripone l’Iphone in una tasca interna. Intanto mi avvicino con una certa cautela. Pedro fa mezzo passo per allungarmi la mano, ha il corpo piegato all’indietro. Resta diffidente. Devo leggere il codice prossemico? Bah?!? Tutte cazzate.

Lui è quel Pedro Ramirez che domenica ha dominato il Trofeo Lidense, quindici chilometri di corsa piatta ad Ostia. C’ero anche io. Sono arrivato venti minuti dopo di lui. Ho anche fatto il mio best time sulla distanza. Il best time da ex runner. Prima andavo forte. Una volta gli sarei stato alle costole, gli avrei fatto sentire il mio respiro fino alla fine. Ma i tempi dicono che anche allora avrebbe vinto lui.

E’ lì, dopo la premiazione, che ho preso il contatto con Pedro. Mohamed si è aggregato dopo. Pedro mi ha avvertito che ci sarebbe stato un suo compagno di squadra. Meglio due storie che una, ho pensato. Forse il mio post vale più di cento euro. Stai a vedere che ci scappa anche una bevuta.

¿qué pasa? Gli dico.

Possiamo parlare italiano, mi risponde. Non sorride, non fa smorfie.

Abbasso lo sguardo. Calza un paio di Mizuno Wave Prophecy 7, blu. Non mi piace questo loro strano atteggiamento tra arroganza e diffidenza. Quando ho avvicinato Pedro gli ho spiegato del post, del blog. Sembrava contento. Mi fingo impegnato sul mio telefonino. Li lascio lì, a prendermi le misure. Intanto cerco il prezzo delle sue scarpe su Amazon.

Trecendodieci euro.

Cazzo! Esclamo mentre gli guardo nuovamente i piedi.

Le porto da due giorni. Me le ha regalate un amico, dopo che lui ci ha fatto seicento chilometri. Se ci corro mi rovino, così ci cammino.

Sarà, ma a me non sembrano così pericolose. Anzi sembrano nuove.

Pedro ha un tono spazientito, sembra aver fretta. Neanche ci siamo presentati e già stiamo così. Altro che storytelling, qui non tiro fuori un ragno dal buco. Torno sulle scarpe.

Il tuo amico è italiano? Dico,  quello che te le ha regalate.

Sì, anche lui corre per Ernesto.

Ernesto, una vecchia conoscenza, è il patron della Sìsport. E’ anche il proprietario di una ditta che ha la concessione di un noto brand di articoli sportivi. Fornisce kit a scuole calcio e a gruppi sportivi. Va forte in tutto il Centro Italia. A Roma ha il monopolio. Nessuno si azzarda a mettersi in mezzo. I suoi podisti migranti vincono gare e lui si fa una bella pubblicità tra i runners.

Mohamed ha le vene degli occhi rosse. Saltella sulle gambe. Mi dà quasi le spalle. Se ne sta rivolto verso l’edificio della Mira Lanza. Mi sembra che cerchi un riparo. In effetti fa freddo. Gli propongo di attraversare la strada ed entrare in un bar. Gli offro un caffè. L’africano a questo punto fa una cosa strana. Invia la sua posizione da Whatsapp. Me ne accorgo per caso, perché lui ha mostrato il telefonino a Pedro. Di solito do per normale che uno smanetti sul telefonino mentre mi parla. Tutti lo fanno. Se non avesse girato lo schermo verso Pedro non avrei allungato il collo. Sembrava volesse tranquillizzarlo.
Comunque a quel punto Mohamed ancora non ha detto una parola. Apre la bocca per dirmi che vuole andare in bagno. Ci vogliono le chiavi. Bisbiglia una richiesta alla barista, una bella brunetta che suda tatuaggi. Lei lo guarda male. Io la guardo male. Lei consegna le chiavi del bar.
Lascia pulito!, gli intima. E si mette a chattare con qualche macho tatuato. Almeno immagino. No, non lo so con chi stava chattando. Mica sono un indovino.

Intanto il caffè riempie le tazzine e lei, mentre chatta con la mano destra e il suo pollice opponibile, usa la sinistra per spingere il tasto della macchina espresso.

Lei chatta e i caffè escono maledettamente lunghi. Lo ricordo perché il caffè lungo mi disgusta. La brunetta si sporge maliziosamente in avanti per sbattermi sul bancone la tazzina di caffè Segafredo. Almeno quello è il brand che fornisce le stoviglie, quando lo assaggio non mi pare proprio di bere un caffè Segafredo. È cattivo. Lungo e cattivo.

Sa, me ne intendo di caffè.

Pedro invece si rianima. Sono venuto in cerca di lavoro e l’unico lavoro onesto che ho trovato è vincere gare la domenica. Giocavo a pallone con gli amici ed ero il più veloce. Mi hanno detto che Ernesto cercava gente come me. Sono andato alla Sìsport e abbiamo provato. Non è una storia da farci un articolo, si scusa. Tutto qui.

Mohamed riconsegna le chiavi e beve il caffè tutto d’un sorso. Guarda torvo la ragazza del bar. C’è qualcosa di strano tra loro. Come? Se ne sono sicuro? No, questione di sensazioni.

Ruota la tazzina e si finisce le ultime gocce zuccherate. Parla. E’ venuto per lavorare ma la sua storia è diversa. Già in Senegal correva. È arrivato qui e corre. Cosa c’è che non va? Mi chiede con accento francese.

Niente, dico io. Sorrido. Anche Pedro sorride.

Mi viene da chiedere come sbarchino il lunario. Mica posso fare un post su uno che correva a casa sua e ora corre qui. Punto.

Di cosa vivete? Dico. Non posso credere che Moahmed si sia comprato l’Iphone con i premi delle gare.

Cerco di farmi dire a chi vanno i premi in denaro. La storia dei premi è importante. E’ questo punto che mi ha fatto scattare la curiosità. Molti podisti migranti non sono riusciti ad avere un tesserino FIDAL. Per forza: non hanno una residenza regolare o semplicemente non trovano una società disposta a pagare la tassa per mettere in regola gli atleti provenienti da federazioni straniere. Per correre si fanno tesserare dagli enti di promozione sportiva, come la UISP o il CSI.

La pacchia è finita. La Federazione ha dichiarato guerra alle gare non omologate e adesso devono trovare il modo di farsi tesserare da una società. L’alternativa è la runcard. Una tessera UISP oggi non vale niente per loro. Non vale niente per chiunque voglia vincere premi. Tutti hanno una runcard, persino mio cognato che quando ha corso la gara alla Garbatella è arrivato che l’arco del traguardo era già stato sgonfiato. Alla Garbatella ha vinto Mohamed.

Ma quando vinci il premio lo tieni tutto per te, Mohamed? Ti bastano questi soldi?

Pedro lo guarda. Mohamed non risponde. Non si preoccupa di rispondere. Pedro interviene. No che non bastano, dice.  Faccio i lavori per le case. Pulisco, lavo, stiro. Il mio padrone è bravo e mi ha fatto il certificato. I premi non c’entrano. Non è un lavoro. Mi dice il messicano.

Mohamed se ne sta zitto e fissa la vetrina del negozio. Pedro mi parla addosso: ha trovato in affitto una piccola casa ammobiliata, spera che il contratto sia rinnovato. Mi dice anche che Mohamed non ha una casa, vive con un amico.

L’africano ha staccato la spina. E’ assente. Guarda fuori e sembra non accorgersi che stiamo parlando di lui. Pedro parla, parla, parla. Qualcosa da scrivere mi resta.

Moahmed fissa di nuovo la ragazza del bar, lei lo ricambia con un ghigno. Pedro si gira il portachiavi nelle mani. Un portachiavi senza chiavi. Strana cosa. E’ un gadget della Sìsport. Ne avevo uno uguale. L’ho regalato a mio nipote, mi pare.
Mohamed ha indosso ancora l’auricolare wifi. Dalle sue orecchie escono rumori indistinti. Non è musica.

Certo, sono sicuro che non ascolta musica. Ad un tratto parla al microfono delle sue cuffiette. Sì, lo ricordo cosa ha detto: Siamo dentro.

Poi niente rumori. Mohamed continua ad ignorarmi. Guarda fuori. Tutti, d’istinto, guardiamo fuori perché è chiaro ormai che qualcuno sta per arrivare.

Un uomo grosso, infagottato in un bomber come quello dei due ragazzi, si avvicina e ci osserva per qualche secondo. Poi entra.

Ci conosciamo da anni.

Ci detestiamo da anni.

E’ Ernesto. Il manager dei top runner, i miei atleti migranti.

Ciao, Renà. Mi fa.

Ciao, Ernè.

Si sbottona, il bomber. E’ sempre stato di poche parole. E’ più robusto di quando correvamo insieme per le fiamme gialle. Io avanti e lui dietro, per tutta la gara. Poi lui a cento metri dal traguardo mi passava sempre. Non avrei scommesso un euro che prima o poi sarebbe uscito dal gruppo sportivo. Aveva il carattere di quello che ce la fa. Invece se ne è andato. Si vede che non aveva il carattere per le fiamme gialle.

Renà, che voi?

Niente, Ernè. Mi sto a fa quattro chiacchiere con questi due campioni.

Renà, la situazione è delicata. Te devi fa’ i cazzi tua. Non puoi chiedere come campano, se sono tesserati, se si mettono i premi in saccoccia. Niente, non puoi chiedere niente. Scrivi di quanto vanno veloce. Anzi, manco quello. Fa er bravo. Che poi scrivi pure male.

Ma io, non….

Ma credi che sono scemo? Ho sentito tutto. Mohamed era collegato.

Mohamed ora ha il viso rilassato. Soddisfatto.

Ernesto fa un cenno. I due escono. Pedro saluta. Mohamed no.

E’ iniziato tutto in quel momento. Ernesto se ne stava a parlare con la ragazza del bar. È entrato un tipo e mi ha preso sotto braccio. Ernesto ha lasciato una banconota alla ragazza con i tatuaggi ed è uscito. Il tipo mi ha accompagnato fuori. No, non mi ha fatto violenza. No, non mi ha minacciato. Ma se mi fossi rifiutato era chiaro…  Lì c’era una macchina. La ricordo benissimo. Un vecchia Alfa Sud. Credevo che non ne girassero più. Dentro c’erano i tre che mi hanno ridotto così. Siamo partiti e poi… eccomi qui.

Erano Africani?

No, italiani. Gente grossa. Del mestiere.

Non c’era Mohamed? Chiese alla fine il magistrato.

No, Mohamed ha fatto le foto quando sono arrivato, ha mandato la nostra posizione dentro il bar, ha registrato la conversazione. Ma poi è andato via prima di tutti. Stavolta mi sa che Instagram lo ha inguaiato. Lo avete preso?

Sì, ammise il magistrato.

Liberatelo.

Lo abbiamo rimpatriato mentre lei era in coma.

Non potevate aspettare?

Sono passati sei mesi. Niente prove per il rinvio a giudizio, ma abbastanza per spedirlo in Senegal.

Ma lui non c’entra. Era andato via prima. Con il suo Iphone in mano.

Lo abbiamo seguestrato. L’Iphone, precisa. Abbiamo sequestrato l’Iphone.

Poi se ne va. Senza salutare.

Binda, il mio compagno di banco

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E’ tempo suo, si dice quando fa freddo durante il periodo natalizio. Il primo anno del nuovo millennio, il trentun dicembre, il freddo fece il suo dovere. A dire il vero non faceva proprio freddo freddo, era freddino. Il tempo suo era rispettato più che altro da una più consistente umidità e soprattutto da una nebbia londinese che accompagnava una fastidiosissima pioggia, fina ed intermittente. Ricordo bene che quel 31 dicembre non smise mai di piovere, che quel 31 dicembre c’era la nebbia, e che quel 31 dicembre faceva abbastanza freddo. Quel 31 dicembre era uno di quei giorni da tirare a lungo sotto le coperte.

Alle otto mi chiama Massimo, con lui ho appuntamento alle nove per una corsetta: dal Convento di San Silvestro fino alla fattoria biologica del Parco Educa e Produce. Una corsa intorno ai 700 metri di quota, su un percorso sterrato e accidentato, per di più reso infido dalla pioggia.

Il fatto è che Massimo scrive in cronaca per L’Unità e i giornalisti il 31 dicembre non lavorano. Ecco perché ci siamo dati appuntamento il 31 dicembre. Massimo è stato mio compagno di banco al liceo e ottimo interprete di quel gioco che noi chiamavamo Papera, un calcetto più sfigato, che già il calcetto è la copia sfigata del calcio.

Sfigata o no la Papera aveva conservato, presso il liceo Socrate, una sua tradizione goliardica e persino un suo gergo, ormai certamente dimenticato, che se il Preside del Socrate fosse attento alle tradizioni inviterebbe Massimo per parlarne ai ragazzi.

La palla, ad esempio, si chiamava Bergia o qualcosa del genere. I motivi del nome sono tramandati soltanto dalla tradizione orale, per evitare che si perdano del tutto li scrivo. Pare che un gruppo di ragazzotti, in uno di quei torridi pomeriggi pre-estivi, pre-quadri, pre-incazzature per riparazioni settembrine, post-incazzature per questioni di femmine, nel pieno delle incazzature calcistiche, insomma in uno di quei momenti deprimenti alla Ecce Bombo, abbiano deciso di ammazzare il tempo utilizzando come campo da calcio il rettangolo canonicamente adibito al basket. Erano anni in cui ci si ammazzava per il colore delle bandiere, ammazzare il tempo con la papera sembrò un’ottima idea, che al Socrate, anche in seguito, risparmiò diverse esistenze da guai peggiori.

Comunque, le tasche liceali sono sempre al verde, oppure, semplicemente era un giovedì e i negozi sono chiusi, o semplicemente nessuno ha portato il Super Santos da casa. I padri del nostro gioco trovarono una papera di plastica, la quale, ignara della sua prossima quanto gloriosa sorte di progenitrice dell’unica tradizione degna di nota del Liceo Socrate, razzolava, forse abbandonata, nella vicinanze. Di qui il nome dello sport nazionale del liceo Socrate e della palla, chissa perché battezzata Bergia dai padri.

Con Massimo, nella squadra della nostra classe, formavamo una strana coppia, lui tutto tecnica e fantasia io tutto muscoli e tigna.

Naturalmente le nostre anime, così diverse, a volte venivano a cozzare frontalmente. Come dice Velasco: la marmellata è buona e pure gli spaghetti, ma non provateli a mettere insieme. Velasco l’allenatore argentino di pallavolo, è uno tosto che ha anche scritto per Micromega, se lo tiro in ballo dovete rifletterci su sta cosa della marmellata e degli spaghetti. Comunque Velasco è una persona di ovvia intelligenza. Massimo, invece possiede una intelligenza cristallina e pindarica, poco avvezza, almeno in gioventù, al rigore dello studio metodico. Ci siamo persi di vista per alcuni anni, con Massimo dico, l’amico dell’intelligenza pindarica, non con Velasco, quello dell’ovvia intelligenza e di Micromega. Ora che ci siamo ritrovati, correre insieme qualche chilometro è un buon pretesto per stare insieme un po’ e parlare del liceo, della Papera, delle compagne di classe.

Io sono più avanti e preparo la maratona, ma lui negli anni è diventato tosto, ha imparato a soffrire e prima o poi arriverà a correre più forte di me. Io ora corro quasi aggraziato, tutti e due in fondo siamo diventati il contrario di quello che eravamo da ragazzi.

Torniamo al telefono, la sua voce è impastata, forse viene dal letto. Speranzoso di farla franca mi chiede notizie sul tempo. Vieni tranquillo, è nuvolo ma praticabile. Che cazzo di risposta! Sono disonesto: il notiziario meteorologico è stato sillabato da sotto una calda coltre di coperte, al buio assoluto della mia stanza, senza alcuna possibilità di osservare fuori dalla finestra.

Non è stata una vera e propria bugia, qualche ora prima ero stato svegliato dal rumore di qualche stronzo che ha percorso la strada di casa mia, che è una salita come lo Stelvio, con un’apetta smarmittata, al cospetto della quale si tirerebbe un sacrosanto colpo alla nuca chi ha inventato quegli stupidi standar Euro più numeri a casaccio.

Ormai irreparabilmente sveglio, mi ero alzato, preparato il caffè ed avevo anche sbirciato fuori dalla finestra. Giuro che alle sei non pioveva. Poi, intirizzito, avevo vissuto uno dei migliori momenti della vita di un uomo sposato. Reinfilarsi furtivo sotto le coperte e farsi scaldare in un tenero abbraccio dalla moglie mezzo addormetata. A volte le mogli si incazzano per questo e tirano fendenti micidiali, le più miti al volto, le più smaliziate e cattive ai genitali. Quella volta Anna Rita non si accorse del mio abbraccio freddo e mortale, nel senso che ero freddo come un cadavere d’obitorio, e così, stretto nel suo caldo, sopravvissi alle intemperie della mia camera da letto.

Massimo arrivò sul luogo dell’appuntamento quasi puntuale, abitudine dell’età adulta, quella della puntualità, visto che al liceo il monte ore complessivo dei suoi ritardi aveva assunto dimensioni vicine a quelle dell’Everest. In quei gloriosi anni, di papere e coppe dei campioni, avevamo preso l’abitudine di convocarlo almeno mezz’ora prima delle nostre reali intenzioni di incontro. Non si accorse mai del tranello, tranne, forse, quella volta che inopinatamente arrivò puntuale, all’alba, un giorno che, guarda caso, ci saremmo incontrati per andare a correre una campestre. Non é che all’epoca ci piacesse correre, ma la campestre era un pretesto nobile e del tutto legale per far sega a scuola. Erano le sette di mattina e quel giorno il mio compagno di banco scontò molti dei suoi ritardi, patendo un freddo che spaccava l’anima ed anche qualcos’altro di meno nobile. La sua faccia sconsolata e auto commiserevole di allora mi è venuta in mente nel rivederlo il 31 dicembre presso il convento di S. Silvestro. A questo punto non poteva tirarsi indietro. Era vestito più o meno come Edoardo che esce dal letto sulla scena di Natale in Casa Cupiello. Imposi che si togliesse almeno un paio di strati della lana con la quale si era saggiamente ricoperto. Orlando Pizzolato, il mio Guru, obbliga i runners che non vogliono sentirsi tapascioni a correre leggeri, con qualsiasi temperatura. In genere questo consiglio si rivela essere una balla insidiosa e la gente si ammala per averlo seguito. Mi sa che quando fa molto freddo bisognerebbe starsene a casa.
Massimo ormai aveva tratto il dado (ma non esisteva modo migliore per tradurre questa cazzo di espressione?) ed era in balia della mia guida e dei miei gratuiti consigli. Si parte. A stento si vedeva dove mettevamo i piedi. Al primo bivio, quello della forcella, dove i cacciatori di frodo aspettano le beccacce al passo, ricordai che il mio compagno nutriva verso i cani un sentimento che definirei prossimo alla fifa blu e che quindi il sentiero che costeggia la sosta abusiva di un gregge di pecore era da sconsigliare, visto che saremmo stati sicuramente attaccati dai non miti cani pastori, notoriamente poco disposti a compromessi con giornalisti de l’Unità.
Decidemmo di scendere a valle, verso Molara. Il fango appesantiva le scarpe e il buon amico cominciava a nutrire dubbi sulla mia salute mentale.

Per fortuna non si accorse di una carogna di pecora a valle del nostro sentiero. Il suo morale non ne avrebbe tratto giovamento. Si corre per fare quattro chiacchiere, si dice. Invece ascoltavamo solo il nostro affanno, in fila indiana, con gli occhi bassi. Un ruzzolone nel fango ghiacciato non è il miglior modo di finire l’anno. A proposito, il 2001 era il primo o il secondo anno del millennio? Comunque non un anno di quelli anonimi, come il 1995 o il 2002, il 2001 aveva i numeri per essere un anno cazzuto. Non poteva finire nel fango.

Dopo una ventina di minuti, già questi quasi epici, la strada ci è sbarrata da due cani inferociti. Anche io che con i cani mi trovo a mio agio, forse, qualcuno afferma, perché in me vedono uno di loro, avrei avuto qualche problema, ma dato il colore blu della fifa di cui sopra, optammo per una ulteriore deviazione. Circa quindici minuti di strada infame, tutti in ripida e per noi poco rapida discesa.

Poi finalmente asfalto.

Purtroppo la nebbia e il discorrere, ravvivato dalla ritrovata civiltà del percorso, mi fa perdere il bivio giusto. Massimo manco ci pensa alla strada, si fida. Fa male. A questo punto è passata quasi un’ora e le forze del mio compagno di banco sono allo stremo. Qui che l’uomo diventa eroe, oppure, semplicemente tignoso. Il ragazzo, un tempo tutta tecnica e poco cuore, è diventato un ometto coraggioso. La strada del ritorno è ancora sorvegliata dai due canacci che ci guardano con gli occhi di uno stopper uruguagio di terza categoria. La deviazione prevede ora un supplemento di salita. La nebbia è scesa anche a valle. Mi giro e vedo il mio amico che sale del suo passo, sembra il gregario di Pantani sul Pordoi, mentre, però, gli altri già attaccano il Sella. Allento l’andatura e dispenso frasi del cazzo, del tipo: accorcia il passo, guarda avanti, sono gli ultimi metri di salita. Invece si sale ancora: ariecco la percora morta, ‘che ai Castelli la pecora è la percora, dico a Massimo che stavolta l’ha vista. La vista annebbiata e la nebbia che ci fa perdere di vista non permettono al mio amico di comunicare con me per qualche minuto. Rallento un po’ per cortese amicizia, ma soprattutto perché sono stremato pure io. Finalmente lo sento ansimare alle mie spalle, mi giro e la sua figura emerge dalla nebbia. Ma non c’era la discesa? Si, all’andata, faccio lo spiritoso.
Arriviamo dopo aver superato la sua soglia di dolore da una quarantina di minuti.
Tornati alle macchine Massimo non parla, si toglie i pochi indumenti che gli avevo consentito. Si cambia alla meno peggio. Non è più il mio compagno di banco: ha la faccia di Binda in un antico filmato che lo riprende sporco e stravolto.
Per venire ho pure discusso con mia moglie, sai : il cenone, gli invitati, la spesa…mi dice con un tono di rimprovero.
Già, la spesa, tocca anche a me. Baci ed auguri. Torno a casa mentre Massimo, accosta vicino all’edicola, ferma la macchina, e in infradito, con pantaloncini corti da allenamento, sfida la nebbia e gli sguardi dei paesani per andare a comprare il suo giornale, con i suoi articoli, gli ultimi dell’anno. Non capisco perché spenda soldi per leggere quello che ha scritto, ma non capisco tante cose, non perdo tempo a ragionare su questa.