La Kawasaki KLR 570 bialbero, forse un po’ smarmittata, fa un gran casino. Mohamed la sente da lontano. Mohamed riconosce il rumore di moto che fanno casino. Arrivavano al suo villaggio in Senegal e ogni volta sarebbe stato meglio che non fossero mai arrivate. Per questo è percorso da un fremito quando sente il rumore della kawasaki KLR 570 che si avvicina. Un riflesso condizionato lo mette sulla difensiva. Estrae il suo Iphone dal bomber sportivo. Inquadra nella camera la moto che si avvicina. Comincia a far foto, poi condivide tutto su Instagram. Subito. Fare in fretta fa la differenza. Ora ci sono già due, tre, quattro feed: il motociclista che guida, scende, si toglie il casco, si avvicina…
Non si sa mai, pensa Mohamed. Già una volta, a Tripoli, si è salvato la pelle mandando in giro le foto dei libici che lo avevano preso.
Con lui c’è Pedro, è messicano. Un piccoletto. Il mio gancio. Indossa lo stesso bomber di Moahmed, quello della sua società, la Sìsport. Anche lui estrae la sua arma, un foglietto giallo sgualcito, la carta della Prefettura. Con quella, gli hanno detto, può girare tranquillo. Relativamente tranquillo.
Li trovo così, uno con un Iphone che mi scatta foto e l’altro con un foglietto giallo in mano. Poggio la moto addosso al rudere della Mira Lanza. Da bambino ci venivo a ritirare i premi guadagnati con i punti. Tutte le famiglie facevano i punti. Anche io ho un riflesso condizionato. Sono contento e penso alla mia infanzia felice, quando la felicità era data da un pupazzo gonfiabile di Susanna. L’edificio è abbandonato, ma dentro c’è vita. Qui si spaccia e ci si prostituisce. Dicono. Percepisco che dentro c’è vita, sento dei rumori, vedo ombre che si muovono. Sta succedendo qualcosa là dentro.
Scatto giù dalla sella. Ostento agilità. Uno sforzo che avrei potuto risparmiarmi. Do la plastica idea di quello che sono: un cinquantenne su una vecchia moto che non si arrende all’evidenza. Davanti a me ho due podisti veri. Gente in grado di correre i 5.000 in meno di 15 minuti, i 10.000, in gara su strada, in 30 ed una mezza maratona in 1h06′. Sono qui per questo.
Podisti migranti.
Un post da almeno diecimila visualizzazioni sul blog di una nota rivista per runners. Un centinaio di euro per me e un po’ di pubblicità. Magari la cambio questa marmitta.
Osservo la mia coppia di podisti migranti.
Un ventenne del loro livello non avrebbe problemi ad essere arruolato in un gruppo sportivo. A patto di essere italiano, penso. Invece questi due stanno aspettando me davanti alla Mira Lanza. Non sanno niente di Susanna. A loro non ne verrà nulla da questa storia. Anzi. Con questo post entro nel club di chi ci guadagna sopra.
Ci salutiamo da dieci metri, con un cenno della mano. Non si avvicinano, eppure ormai deve essergli chiaro che io sono la persona che stanno aspettando. Mohamed si aggiusta l’auricolare e ripone l’Iphone in una tasca interna. Intanto mi avvicino con una certa cautela. Pedro fa mezzo passo per allungarmi la mano, ha il corpo piegato all’indietro. Resta diffidente. Devo leggere il codice prossemico? Bah?!? Tutte cazzate.
Lui è quel Pedro Ramirez che domenica ha dominato il Trofeo Lidense, quindici chilometri di corsa piatta ad Ostia. C’ero anche io. Sono arrivato venti minuti dopo di lui. Ho anche fatto il mio best time sulla distanza. Il best time da ex runner. Prima andavo forte. Una volta gli sarei stato alle costole, gli avrei fatto sentire il mio respiro fino alla fine. Ma i tempi dicono che anche allora avrebbe vinto lui.
E’ lì, dopo la premiazione, che ho preso il contatto con Pedro. Mohamed si è aggregato dopo. Pedro mi ha avvertito che ci sarebbe stato un suo compagno di squadra. Meglio due storie che una, ho pensato. Forse il mio post vale più di cento euro. Stai a vedere che ci scappa anche una bevuta.
¿qué pasa? Gli dico.
Possiamo parlare italiano, mi risponde. Non sorride, non fa smorfie.
Abbasso lo sguardo. Calza un paio di Mizuno Wave Prophecy 7, blu. Non mi piace questo loro strano atteggiamento tra arroganza e diffidenza. Quando ho avvicinato Pedro gli ho spiegato del post, del blog. Sembrava contento. Mi fingo impegnato sul mio telefonino. Li lascio lì, a prendermi le misure. Intanto cerco il prezzo delle sue scarpe su Amazon.
Trecendodieci euro.
Cazzo! Esclamo mentre gli guardo nuovamente i piedi.
Le porto da due giorni. Me le ha regalate un amico, dopo che lui ci ha fatto seicento chilometri. Se ci corro mi rovino, così ci cammino.
Sarà, ma a me non sembrano così pericolose. Anzi sembrano nuove.
Pedro ha un tono spazientito, sembra aver fretta. Neanche ci siamo presentati e già stiamo così. Altro che storytelling, qui non tiro fuori un ragno dal buco. Torno sulle scarpe.
Il tuo amico è italiano? Dico, quello che te le ha regalate.
Sì, anche lui corre per Ernesto.
Ernesto, una vecchia conoscenza, è il patron della Sìsport. E’ anche il proprietario di una ditta che ha la concessione di un noto brand di articoli sportivi. Fornisce kit a scuole calcio e a gruppi sportivi. Va forte in tutto il Centro Italia. A Roma ha il monopolio. Nessuno si azzarda a mettersi in mezzo. I suoi podisti migranti vincono gare e lui si fa una bella pubblicità tra i runners.
Mohamed ha le vene degli occhi rosse. Saltella sulle gambe. Mi dà quasi le spalle. Se ne sta rivolto verso l’edificio della Mira Lanza. Mi sembra che cerchi un riparo. In effetti fa freddo. Gli propongo di attraversare la strada ed entrare in un bar. Gli offro un caffè. L’africano a questo punto fa una cosa strana. Invia la sua posizione da Whatsapp. Me ne accorgo per caso, perché lui ha mostrato il telefonino a Pedro. Di solito do per normale che uno smanetti sul telefonino mentre mi parla. Tutti lo fanno. Se non avesse girato lo schermo verso Pedro non avrei allungato il collo. Sembrava volesse tranquillizzarlo.
Comunque a quel punto Mohamed ancora non ha detto una parola. Apre la bocca per dirmi che vuole andare in bagno. Ci vogliono le chiavi. Bisbiglia una richiesta alla barista, una bella brunetta che suda tatuaggi. Lei lo guarda male. Io la guardo male. Lei consegna le chiavi del bar.
Lascia pulito!, gli intima. E si mette a chattare con qualche macho tatuato. Almeno immagino. No, non lo so con chi stava chattando. Mica sono un indovino.
Intanto il caffè riempie le tazzine e lei, mentre chatta con la mano destra e il suo pollice opponibile, usa la sinistra per spingere il tasto della macchina espresso.
Lei chatta e i caffè escono maledettamente lunghi. Lo ricordo perché il caffè lungo mi disgusta. La brunetta si sporge maliziosamente in avanti per sbattermi sul bancone la tazzina di caffè Segafredo. Almeno quello è il brand che fornisce le stoviglie, quando lo assaggio non mi pare proprio di bere un caffè Segafredo. È cattivo. Lungo e cattivo.
Sa, me ne intendo di caffè.
Pedro invece si rianima. Sono venuto in cerca di lavoro e l’unico lavoro onesto che ho trovato è vincere gare la domenica. Giocavo a pallone con gli amici ed ero il più veloce. Mi hanno detto che Ernesto cercava gente come me. Sono andato alla Sìsport e abbiamo provato. Non è una storia da farci un articolo, si scusa. Tutto qui.
Mohamed riconsegna le chiavi e beve il caffè tutto d’un sorso. Guarda torvo la ragazza del bar. C’è qualcosa di strano tra loro. Come? Se ne sono sicuro? No, questione di sensazioni.
Ruota la tazzina e si finisce le ultime gocce zuccherate. Parla. E’ venuto per lavorare ma la sua storia è diversa. Già in Senegal correva. È arrivato qui e corre. Cosa c’è che non va? Mi chiede con accento francese.
Niente, dico io. Sorrido. Anche Pedro sorride.
Mi viene da chiedere come sbarchino il lunario. Mica posso fare un post su uno che correva a casa sua e ora corre qui. Punto.
Di cosa vivete? Dico. Non posso credere che Moahmed si sia comprato l’Iphone con i premi delle gare.
Cerco di farmi dire a chi vanno i premi in denaro. La storia dei premi è importante. E’ questo punto che mi ha fatto scattare la curiosità. Molti podisti migranti non sono riusciti ad avere un tesserino FIDAL. Per forza: non hanno una residenza regolare o semplicemente non trovano una società disposta a pagare la tassa per mettere in regola gli atleti provenienti da federazioni straniere. Per correre si fanno tesserare dagli enti di promozione sportiva, come la UISP o il CSI.
La pacchia è finita. La Federazione ha dichiarato guerra alle gare non omologate e adesso devono trovare il modo di farsi tesserare da una società. L’alternativa è la runcard. Una tessera UISP oggi non vale niente per loro. Non vale niente per chiunque voglia vincere premi. Tutti hanno una runcard, persino mio cognato che quando ha corso la gara alla Garbatella è arrivato che l’arco del traguardo era già stato sgonfiato. Alla Garbatella ha vinto Mohamed.
Ma quando vinci il premio lo tieni tutto per te, Mohamed? Ti bastano questi soldi?
Pedro lo guarda. Mohamed non risponde. Non si preoccupa di rispondere. Pedro interviene. No che non bastano, dice. Faccio i lavori per le case. Pulisco, lavo, stiro. Il mio padrone è bravo e mi ha fatto il certificato. I premi non c’entrano. Non è un lavoro. Mi dice il messicano.
Mohamed se ne sta zitto e fissa la vetrina del negozio. Pedro mi parla addosso: ha trovato in affitto una piccola casa ammobiliata, spera che il contratto sia rinnovato. Mi dice anche che Mohamed non ha una casa, vive con un amico.
L’africano ha staccato la spina. E’ assente. Guarda fuori e sembra non accorgersi che stiamo parlando di lui. Pedro parla, parla, parla. Qualcosa da scrivere mi resta.
Moahmed fissa di nuovo la ragazza del bar, lei lo ricambia con un ghigno. Pedro si gira il portachiavi nelle mani. Un portachiavi senza chiavi. Strana cosa. E’ un gadget della Sìsport. Ne avevo uno uguale. L’ho regalato a mio nipote, mi pare.
Mohamed ha indosso ancora l’auricolare wifi. Dalle sue orecchie escono rumori indistinti. Non è musica.
Certo, sono sicuro che non ascolta musica. Ad un tratto parla al microfono delle sue cuffiette. Sì, lo ricordo cosa ha detto: Siamo dentro.
Poi niente rumori. Mohamed continua ad ignorarmi. Guarda fuori. Tutti, d’istinto, guardiamo fuori perché è chiaro ormai che qualcuno sta per arrivare.
Un uomo grosso, infagottato in un bomber come quello dei due ragazzi, si avvicina e ci osserva per qualche secondo. Poi entra.
Ci conosciamo da anni.
Ci detestiamo da anni.
E’ Ernesto. Il manager dei top runner, i miei atleti migranti.
Ciao, Renà. Mi fa.
Ciao, Ernè.
Si sbottona, il bomber. E’ sempre stato di poche parole. E’ più robusto di quando correvamo insieme per le fiamme gialle. Io avanti e lui dietro, per tutta la gara. Poi lui a cento metri dal traguardo mi passava sempre. Non avrei scommesso un euro che prima o poi sarebbe uscito dal gruppo sportivo. Aveva il carattere di quello che ce la fa. Invece se ne è andato. Si vede che non aveva il carattere per le fiamme gialle.
Renà, che voi?
Niente, Ernè. Mi sto a fa quattro chiacchiere con questi due campioni.
Renà, la situazione è delicata. Te devi fa’ i cazzi tua. Non puoi chiedere come campano, se sono tesserati, se si mettono i premi in saccoccia. Niente, non puoi chiedere niente. Scrivi di quanto vanno veloce. Anzi, manco quello. Fa er bravo. Che poi scrivi pure male.
Ma io, non….
Ma credi che sono scemo? Ho sentito tutto. Mohamed era collegato.
Mohamed ora ha il viso rilassato. Soddisfatto.
Ernesto fa un cenno. I due escono. Pedro saluta. Mohamed no.
E’ iniziato tutto in quel momento. Ernesto se ne stava a parlare con la ragazza del bar. È entrato un tipo e mi ha preso sotto braccio. Ernesto ha lasciato una banconota alla ragazza con i tatuaggi ed è uscito. Il tipo mi ha accompagnato fuori. No, non mi ha fatto violenza. No, non mi ha minacciato. Ma se mi fossi rifiutato era chiaro… Lì c’era una macchina. La ricordo benissimo. Un vecchia Alfa Sud. Credevo che non ne girassero più. Dentro c’erano i tre che mi hanno ridotto così. Siamo partiti e poi… eccomi qui.
Erano Africani?
No, italiani. Gente grossa. Del mestiere.
Non c’era Mohamed? Chiese alla fine il magistrato.
No, Mohamed ha fatto le foto quando sono arrivato, ha mandato la nostra posizione dentro il bar, ha registrato la conversazione. Ma poi è andato via prima di tutti. Stavolta mi sa che Instagram lo ha inguaiato. Lo avete preso?
Sì, ammise il magistrato.
Liberatelo.
Lo abbiamo rimpatriato mentre lei era in coma.
Non potevate aspettare?
Sono passati sei mesi. Niente prove per il rinvio a giudizio, ma abbastanza per spedirlo in Senegal.
Ma lui non c’entra. Era andato via prima. Con il suo Iphone in mano.
Lo abbiamo seguestrato. L’Iphone, precisa. Abbiamo sequestrato l’Iphone.
Poi se ne va. Senza salutare.