Mazzanti e la sconfitta nell’antica Grecia

Davide Mazzanti e l’origine della nostra (non) cultura della sconfitta

C’era una volta la nazionale femminile di pallavolo. Tutta sorrisi e politicamente corretto. La sua stella, una fortissima giocatrice di colore nata in Italia, era considerata il simbolo dell’inclusione. Certo, qualcuno non gradiva, ma si sa, le rivoluzioni culturali sono divisive. Portabandiera alle Olimpiadi, invitata per un monologo a Sanremo, fece persino outing sul suo orientamento sessuale, poi in parte ritrattato. La ritrattazione deve essere, del resto, una sua abitudine. Il condottiero, un allenatore mite anche nei momenti più drammatici, chiamava un time out e magari diceva semplicemente: “raga, dai, facciamo quella roba là”, le ragazze tornavano in campo e vincevano. Insomma, niente di più vicino alla perfezione raccontata dalla pubblicità del Mulino bianco.

Poi, come tante piccole indiane, queste ragazze cominciarono a non essere convocate. Ci misero del loro. L’atleta forte, quella del politicamente corretto, disse che in nazionale, no, non ci avrebbe più giocato, poi sì, ma voleva le ferie come un metalmeccanico di Mirafiori, poi forse. Poi ci sarebbe stato un “percorso”, un po’ sì e un po’ no. Poi ce ne era un’altra. Un’altra miss sorriso, almeno per età un po’ sul viale del tramonto a dire il vero, ma forte, forte davvero. Suo marito è stato il vice di quello che “dai raga”, chissà quante volte siano stati a cena insieme, anche con la moglie di “dai raga”, che era forte pure lei e smise di giocare in nazionale poco dopo l’avvento del marito. Pare che la moglie dell’ex vice, ora allenatore di altre nazionali, antipatico quanto vincente, molto vincente, il simbolo del politicamente corretto e un altro manipolo di signore, dopo un “deludente” terzo posto ai mondiali, siano andate dai capi a dire che avrebbero dovuto cacciare “dai raga”.

Fin qui i fatti. Ce ne è un altro di fatto: il Mulino bianco cominciò a mostrare le sue crepe e i sorrisi finirono al quarto set di Italia Turchia, semifinale degli europei. Con le nostre in netto vantaggio, 22-18, a tre punti dalla finale, le turche, guidate dal vincente marito di una delle forti piccole indiane, tirarono fuori dal letargo una cubana, cubana vera, mica nata ad Ankara, che fece sparire in un sol colpo, qualche ace e qualche attacco, la pubblicità del Mulino bianco e quella della Durbans.

Un fatto è anche che da quando cominciò a sparire la prima piccola indiana i media e i social abbiano cominciato ad occuparsi di pallavolo in maniera degna del calcio. Un coro quasi unanime, tutti contro il mite “dai raga”. Eppure, aveva preso una nazionale allo sfascio e qualcosa aveva vinto, tipo un europeo, una VNL e qualche altra cosa. Le Olimpiadi no, ma quelle non le aveva mai vinte anche uno che aprì la strada di San Pietro ad un suo connazionale. Già, proprio quello, il guru, che tornerà alla fine della storia. Insomma, dal momento della turca cubana è stata una corsa su un piano inclinato, fino alla provvisoria non qualificazione alle Olimpiadi di Parigi (quelle che senza il meccanico di un politico sarebbero state a Roma e tutto sto casino non ci sarebbe stato perché saremmo stati qualificati di diritto, ma questa è un’altra storia).

Il punto è che questa di storia ha dato benzina al migliore dei vizi italici: la derisione del perdente. I pochi seri hanno parlato di assenza della cultura della sconfitta. Hanno ragione.

A leggere le centinaia di commenti sui social alle centinaia di articoli di centinaia di testate specializzate nella pallavolo, il povero “dai raga” sarebbe stato punito. Non ha perso perché ha perso, ma per una colpa gravissima, aver fatto sparire una ad una le piccole indiane, che poi se fossero state cubane “dai raga” le avrebbe pure risvegliate in semifinale, perché tutti dimenticano che la più forte delle nostre indiane, quella tanto politicamente corretta da nascere in Italia, contro la Turchia, quando si è risvegliata la cubana di Ankara, era in campo da un pezzo.

Ma, noi lo sappiamo chi è il colpevole di tutto questo. No, non della sconfitta. Dico del fatto che se uno perde è colpa sua e non degli altri che sono più forti. È colpa di Milone. Come chi è Milone?

Il suo palmares parla chiaro: campione nella categoria “allievi”, ai giochi olimpici del 540 AC, una vittoria per ogni edizione dei Giochi nemei, istmici, olimpici fino al 512 AC.  La sua fortuna fu quella di iniziare ad allenare la sua forza portando sulle spalle un giovane vitello. Il fatto è che il vitello cresceva, ma Milone era testardo come un calabro greco: passavano i giorni e cresceva anche la forza di Milone. Per cui alla fine, giorno dopo giorno, il lottatore di Crotone si portava a spasso sulle spalle un bovino ormai adulto.

Ora immaginiamo il vecchio Milone, una sorta di Rocky costretto a cambiare l’acqua nei secchi della palestra nella quale continuano ad allenarsi giovani campioni arroganti.  Se ne va per i fatti suoi nei dintorni di Crotone, con la mente piena di ricordi, nostalgia e un po’ di rabbia.  La sua meta è il bel tempio dorico di Hera Lacinia. Una divinità non da poco. La madre di tutti gli dei, gelosa e vendicativa.

Il tempio è recente, i marmi e le decorazioni risplendono, ma poco prima di arrivare alla spianata nella quale si erge l’edificio, c’è un ulivo centenario, sacro alla divinità. Il lottatore vede il tronco cavo dell’ulivo, anche lui vecchio e robusto. Ci infila le mani per un gesto di sfida. Vuole spaccare in due la pianta, come lui carica di antica gloria. Una lotta tra pari. Dai e dai, la pianta non si crepa, non cede un millimetro. Il lottatore si infila con tutte le braccia, spinge, apre e tende i muscoli. La sua pelle si colora di rosso, qualche capillare esplode per lo sforzo, il respiro si fa affannoso. A quel punto Hera è offesa. S’indigna. Si vendica. Chissà quale muscolo abbia ceduto per primo, ma esausto, il vecchio rimane incastrato, non trova le forze, neanche fosse la nazionale italiana al quarto set sul 22 a 18 contro la Turchia. Un ultimo abbraccio ad un vecchio lottatore, Non si scioglie. La dea, dall’alto ride. Un branco di lupi se lo divora e si assume il compito di consegnare al mito la morte del lottatore più forte dell’antichità.

Milone è stato punito non tanto per la sfida ad Hera, chissà cosa se ne facesse la dea di quella pianta, i tradimenti di Zeus, quelli sì che andavano puniti. Milone ha ceduto alla sua “hybris”.

Il punto che ci porta all’archetipo della sconfitta che ancora respiriamo è che l’ eccesso di orgoglio, l’arroganza o la mancanza di rispetto verso gli dei o verso l’ordine naturale delle cose sarebbe dietro ogni sconfitta. Se “dai raga” ha perso è perché ha sfidato la divinità, quella delle ragazze del Mulino bianco che ne avevano chiesto la testa (che poi vai a sapere i motivi).

Perdere non è una opzione che si trova sullo stesso piano della vittoria. Tra la due, vincere o perdere, non c’è parità. Il sapore amaro della sconfitta è più forte e duraturo di quello della vittoria. Phil Jackson, uno che di vittorie se ne intende, ha scritto che la vittoria se ne va dopo l’ultimo calice di champagne con cui la festeggiamo. Non possiamo dire lo stesso della sconfitta: gli antichi greci credevano che chiunque si fosse reso colpevole di hybris avrebbe inevitabilmente subito delle punizioni divine, la sconfitta è il segno di quella colpa.  Lo champagne passa, la punizione resta.

Milone e “dai raga” sono in buona compagnia:  Agamennone che detiene come schiava Criseide, figlia del sacerdote di Apollo; Prometeo, che ruba il fuoco dall’Olimpo per dornarlo gli uomini; Tantalo che la fa grossa, offrendo agli dei in pasto la carne di suo figlio Pelope. Nella Hall of fame non può ovviamente mancare Icaro, che sfidando uomini e dei, vola alto verso il sole, finendo con lo sciogliere le sue ali tenute insieme dalla cera. Tutti hanno pagato l’ hybris.

Un archetipo che è arrivato potente fino ai giorni nostri, questo della hybris e che condiziona la cultura della sconfitta agli occhi degli spettatori e la rende tanto rovinosa per i perdenti.

Letteratura e cinema ne hanno fatto un pattern di successo. Da Frankestein alle rivisitazioni dell’Ulisse,  da Apocalypse now a Jurassic Park il tema è sotteso a una miriade di sceneggiature.

Non si perde semplicemente perché in un campionato una vince e le altre no, del resto la statistica parlerebbe chiaro: in una sfida a due il cinquanta per cento dei contendenti perde.

Se perdi sei colpevole di qualcosa.

Devi essere punito e paghi per sempre la tua colpa. Ventura, forse il primo a non qualificarsi per un mondiale di calcio con la nostra nazionale, ne è uscito distrutto.

L’archetipo lo impone: Mazzanti non ha perso, ha pagato.

E così sarà, il povero Mazzanti andrà a casa, qualcuno dirà cose più profonde di “dai raga, facciamo quella roba lì” e forse il santo argentino vincerà un oro olimpico (sperando di non scegliere l’argentino che benedice da San Pietro che è santo pure lui a sopportare tutti, che però s’intende di calcio e potrebbe tornare utile in seguito).