Mazzanti e la sconfitta nell’antica Grecia

Davide Mazzanti e l’origine della nostra (non) cultura della sconfitta

C’era una volta la nazionale femminile di pallavolo. Tutta sorrisi e politicamente corretto. La sua stella, una fortissima giocatrice di colore nata in Italia, era considerata il simbolo dell’inclusione. Certo, qualcuno non gradiva, ma si sa, le rivoluzioni culturali sono divisive. Portabandiera alle Olimpiadi, invitata per un monologo a Sanremo, fece persino outing sul suo orientamento sessuale, poi in parte ritrattato. La ritrattazione deve essere, del resto, una sua abitudine. Il condottiero, un allenatore mite anche nei momenti più drammatici, chiamava un time out e magari diceva semplicemente: “raga, dai, facciamo quella roba là”, le ragazze tornavano in campo e vincevano. Insomma, niente di più vicino alla perfezione raccontata dalla pubblicità del Mulino bianco.

Poi, come tante piccole indiane, queste ragazze cominciarono a non essere convocate. Ci misero del loro. L’atleta forte, quella del politicamente corretto, disse che in nazionale, no, non ci avrebbe più giocato, poi sì, ma voleva le ferie come un metalmeccanico di Mirafiori, poi forse. Poi ci sarebbe stato un “percorso”, un po’ sì e un po’ no. Poi ce ne era un’altra. Un’altra miss sorriso, almeno per età un po’ sul viale del tramonto a dire il vero, ma forte, forte davvero. Suo marito è stato il vice di quello che “dai raga”, chissà quante volte siano stati a cena insieme, anche con la moglie di “dai raga”, che era forte pure lei e smise di giocare in nazionale poco dopo l’avvento del marito. Pare che la moglie dell’ex vice, ora allenatore di altre nazionali, antipatico quanto vincente, molto vincente, il simbolo del politicamente corretto e un altro manipolo di signore, dopo un “deludente” terzo posto ai mondiali, siano andate dai capi a dire che avrebbero dovuto cacciare “dai raga”.

Fin qui i fatti. Ce ne è un altro di fatto: il Mulino bianco cominciò a mostrare le sue crepe e i sorrisi finirono al quarto set di Italia Turchia, semifinale degli europei. Con le nostre in netto vantaggio, 22-18, a tre punti dalla finale, le turche, guidate dal vincente marito di una delle forti piccole indiane, tirarono fuori dal letargo una cubana, cubana vera, mica nata ad Ankara, che fece sparire in un sol colpo, qualche ace e qualche attacco, la pubblicità del Mulino bianco e quella della Durbans.

Un fatto è anche che da quando cominciò a sparire la prima piccola indiana i media e i social abbiano cominciato ad occuparsi di pallavolo in maniera degna del calcio. Un coro quasi unanime, tutti contro il mite “dai raga”. Eppure, aveva preso una nazionale allo sfascio e qualcosa aveva vinto, tipo un europeo, una VNL e qualche altra cosa. Le Olimpiadi no, ma quelle non le aveva mai vinte anche uno che aprì la strada di San Pietro ad un suo connazionale. Già, proprio quello, il guru, che tornerà alla fine della storia. Insomma, dal momento della turca cubana è stata una corsa su un piano inclinato, fino alla provvisoria non qualificazione alle Olimpiadi di Parigi (quelle che senza il meccanico di un politico sarebbero state a Roma e tutto sto casino non ci sarebbe stato perché saremmo stati qualificati di diritto, ma questa è un’altra storia).

Il punto è che questa di storia ha dato benzina al migliore dei vizi italici: la derisione del perdente. I pochi seri hanno parlato di assenza della cultura della sconfitta. Hanno ragione.

A leggere le centinaia di commenti sui social alle centinaia di articoli di centinaia di testate specializzate nella pallavolo, il povero “dai raga” sarebbe stato punito. Non ha perso perché ha perso, ma per una colpa gravissima, aver fatto sparire una ad una le piccole indiane, che poi se fossero state cubane “dai raga” le avrebbe pure risvegliate in semifinale, perché tutti dimenticano che la più forte delle nostre indiane, quella tanto politicamente corretta da nascere in Italia, contro la Turchia, quando si è risvegliata la cubana di Ankara, era in campo da un pezzo.

Ma, noi lo sappiamo chi è il colpevole di tutto questo. No, non della sconfitta. Dico del fatto che se uno perde è colpa sua e non degli altri che sono più forti. È colpa di Milone. Come chi è Milone?

Il suo palmares parla chiaro: campione nella categoria “allievi”, ai giochi olimpici del 540 AC, una vittoria per ogni edizione dei Giochi nemei, istmici, olimpici fino al 512 AC.  La sua fortuna fu quella di iniziare ad allenare la sua forza portando sulle spalle un giovane vitello. Il fatto è che il vitello cresceva, ma Milone era testardo come un calabro greco: passavano i giorni e cresceva anche la forza di Milone. Per cui alla fine, giorno dopo giorno, il lottatore di Crotone si portava a spasso sulle spalle un bovino ormai adulto.

Ora immaginiamo il vecchio Milone, una sorta di Rocky costretto a cambiare l’acqua nei secchi della palestra nella quale continuano ad allenarsi giovani campioni arroganti.  Se ne va per i fatti suoi nei dintorni di Crotone, con la mente piena di ricordi, nostalgia e un po’ di rabbia.  La sua meta è il bel tempio dorico di Hera Lacinia. Una divinità non da poco. La madre di tutti gli dei, gelosa e vendicativa.

Il tempio è recente, i marmi e le decorazioni risplendono, ma poco prima di arrivare alla spianata nella quale si erge l’edificio, c’è un ulivo centenario, sacro alla divinità. Il lottatore vede il tronco cavo dell’ulivo, anche lui vecchio e robusto. Ci infila le mani per un gesto di sfida. Vuole spaccare in due la pianta, come lui carica di antica gloria. Una lotta tra pari. Dai e dai, la pianta non si crepa, non cede un millimetro. Il lottatore si infila con tutte le braccia, spinge, apre e tende i muscoli. La sua pelle si colora di rosso, qualche capillare esplode per lo sforzo, il respiro si fa affannoso. A quel punto Hera è offesa. S’indigna. Si vendica. Chissà quale muscolo abbia ceduto per primo, ma esausto, il vecchio rimane incastrato, non trova le forze, neanche fosse la nazionale italiana al quarto set sul 22 a 18 contro la Turchia. Un ultimo abbraccio ad un vecchio lottatore, Non si scioglie. La dea, dall’alto ride. Un branco di lupi se lo divora e si assume il compito di consegnare al mito la morte del lottatore più forte dell’antichità.

Milone è stato punito non tanto per la sfida ad Hera, chissà cosa se ne facesse la dea di quella pianta, i tradimenti di Zeus, quelli sì che andavano puniti. Milone ha ceduto alla sua “hybris”.

Il punto che ci porta all’archetipo della sconfitta che ancora respiriamo è che l’ eccesso di orgoglio, l’arroganza o la mancanza di rispetto verso gli dei o verso l’ordine naturale delle cose sarebbe dietro ogni sconfitta. Se “dai raga” ha perso è perché ha sfidato la divinità, quella delle ragazze del Mulino bianco che ne avevano chiesto la testa (che poi vai a sapere i motivi).

Perdere non è una opzione che si trova sullo stesso piano della vittoria. Tra la due, vincere o perdere, non c’è parità. Il sapore amaro della sconfitta è più forte e duraturo di quello della vittoria. Phil Jackson, uno che di vittorie se ne intende, ha scritto che la vittoria se ne va dopo l’ultimo calice di champagne con cui la festeggiamo. Non possiamo dire lo stesso della sconfitta: gli antichi greci credevano che chiunque si fosse reso colpevole di hybris avrebbe inevitabilmente subito delle punizioni divine, la sconfitta è il segno di quella colpa.  Lo champagne passa, la punizione resta.

Milone e “dai raga” sono in buona compagnia:  Agamennone che detiene come schiava Criseide, figlia del sacerdote di Apollo; Prometeo, che ruba il fuoco dall’Olimpo per dornarlo gli uomini; Tantalo che la fa grossa, offrendo agli dei in pasto la carne di suo figlio Pelope. Nella Hall of fame non può ovviamente mancare Icaro, che sfidando uomini e dei, vola alto verso il sole, finendo con lo sciogliere le sue ali tenute insieme dalla cera. Tutti hanno pagato l’ hybris.

Un archetipo che è arrivato potente fino ai giorni nostri, questo della hybris e che condiziona la cultura della sconfitta agli occhi degli spettatori e la rende tanto rovinosa per i perdenti.

Letteratura e cinema ne hanno fatto un pattern di successo. Da Frankestein alle rivisitazioni dell’Ulisse,  da Apocalypse now a Jurassic Park il tema è sotteso a una miriade di sceneggiature.

Non si perde semplicemente perché in un campionato una vince e le altre no, del resto la statistica parlerebbe chiaro: in una sfida a due il cinquanta per cento dei contendenti perde.

Se perdi sei colpevole di qualcosa.

Devi essere punito e paghi per sempre la tua colpa. Ventura, forse il primo a non qualificarsi per un mondiale di calcio con la nostra nazionale, ne è uscito distrutto.

L’archetipo lo impone: Mazzanti non ha perso, ha pagato.

E così sarà, il povero Mazzanti andrà a casa, qualcuno dirà cose più profonde di “dai raga, facciamo quella roba lì” e forse il santo argentino vincerà un oro olimpico (sperando di non scegliere l’argentino che benedice da San Pietro che è santo pure lui a sopportare tutti, che però s’intende di calcio e potrebbe tornare utile in seguito).

Da Socrate a Socrates, prospettive della consulenza filosofica nello sport

Prima c’era il nulla, poi la psicologia sportiva, poi sono arrivati i film di Rocky, Guerre stellari, infine il coaching.  Se oggi non hai a disposizione uno straccio di mental coach non puoi fare sport ad alto livello.

Marcel Jacobs che ringrazia la sua coach al termine della vittoria olimpica sui cento metri è solo uno dei tanti. Pochi sanno chi sia l’allenatore del velocista, ma tutti sanno che la trasformazione da Calimero a eroe olimpico di Marcel viene attribuita ad una mental coach.

Ma non è finita: per non farci mancare nulla cominciano a far capolino anche i ringraziamenti a consulenti filosofici. Roberta Bruni, astista romana, è stata una delle prime atlete a parlarne in una bella intervista di qualche anno fa su un giornale locale.

Ebbene, fatevi dire che da uno del mestiere che il Consulente filosofico è la figura più importante di tutte quelle che ruotano intorno alla prestazione sportiva, ma non sposta di un centesimo la prestazione sui cento metri.

La consulenza filosofica però pare avere tratti distintivi che sembrano aprire prospettive molto interessanti nel campo dell’applicazione della filosofia alla pratica sportiva. Siamo ancora in un ambito dai contorni non ben determinati che vanno chiariti al più presto.

Ci risparmiamo la storia della consulenza filosofica, nata in Germania ma sviluppatasi un po’ dappertutto con declinazioni diverse, a volte equivoche. Questo breve articolo si interessa esclusivamente di cosa può avere a che fare la filosofia con lo sport. 

Per comprendere il contesto sarà utile tracciare immediatamente le righe del campo di gioco, segnando i confini della consulenza filosofica in relazione a due discipline limitrofe, il coaching e la psicologia sportiva: i riferimenti riguardano l’approccio, gli obiettivi e le competenze specifiche. Vediamo quindi cosa è altro dalla consulenza filosofica.

Una descrizione sintetica del coaching lo coglie concentrato sulla prestazione sportiva e sull’aiuto per raggiungere obiettivi specifici. Il coach utilizza tecniche molto efficaci per sostenere la persona nell’elaborazione di un piano d’azione e nella realizzazione degli obiettivi. Questo tipo di azione è centrato sul qui ed ora e sulle tecniche volte a superare eventuali ostacoli al fine di ottenere migliori risultati positivi.

Goal setting, road map, zona, bolla sono termini piuttosto comuni alle diverse scuole di coaching e descrivono bene il campo di azione.  

Uno, non l’unico, dei metodi del coaching è quello fondato sulla PNL e in quel caso troveremo altre parole d’ordine: mappa, territorio, ricalco, trigger…. Già in passato mi sono occupato (qui) delle riserve filosofiche su questo stile di intervento, ma ad essere onesto, pur conservando le mie perplessità sulla PNL, non avevo ancora maturato la riflessione sulla differenza essenziale tra coaching e consulenza filosofia. Pretendevo troppo da un metodo meccanico e tecnico per far correre più forte o servire una buona palla di servizio. Il coaching serve a vincere, non si occupa dei valori e neanche della condizione psicologica profonda dell’atleta. Se lo fa esula dal suo campo.

Il mio coach preferito è Tim Gallwey, con il suo metodo fondato sul gioco interiore.

Diciamo che a Gallwey manca poco per essere un consulente filosofico, infatti il suo sistema è derivato da una buona frequentazione delle filosofie orientali. Ma resta un maestro di tennis che prima ha trasformato l’approccio alla sua disciplina e poi all’apprendimento e allenamento sportivo, per concludere con il coach esistenziale e quello destinato alle aziende. Oggi quella di Gallwey è una industria internazionale.

Sulla libertà lasciata dal Coach PNL al suo cliente, invece, ci sarebbe molto da discutere, direi che andrebbe fatto firmare un modulo di consenso informato su quello che succede ad un atleta che si sottopone ad un intervento PNL. Qui una buona consulenza filosofica sarebbe utile ai coach medesimi, ma questa è un’altra storia.

L’associazione internazionale di coaching ICF ha invece standard piuttosto seri. È una patente che costa tempo e denaro, ma direi che se dovessi affidarmi ad un coach sportivo cercherei qualcuno con i crismi ICF.

Se invece fossi uno psicologo sportivo me la tirerei un po’, cosa che fanno rendendosi piuttosto antipatici. Lo psicologo sportivo è un professionista che in Italia ha seguito un percorso accademico ed è iscritto ad un albo dopo aver superato un ulteriore esame. Coach e consulente filosofico, invece, rientrano nell’ambito della legge 4/2013 che disciplina le professioni non regolamentate, cioè quelle che si possono esercitare senza necessità di essere iscritti ad un albo o un ordine di riferimento e senza dover possedere uno specifico titolo di studio o percorso formativo, regolamentato e definito dal Ministero per l’ Università e la Ricerca (MIUR).

Va quindi detto che l’intervento dello psicologo dello sport è il più istituzionalizzato e controllato delle tre fattispecie di cui ci stiamo occupando. Ciò ovviamente non basta.

La psicologia sportiva si concentra sulla relazione tra la mente e il corpo nella prestazione sportiva. Questo approccio utilizza tecniche di psicologia per aiutare gli atleti a gestire le emozioni, migliorare la motivazione, superare le paure e sviluppare abilità mentali come la concentrazione e la gestione dello stress. La psicologia sportiva si concentra sulla comprensione dei processi psicologici che sottendono la prestazione sportiva e sull’aiuto necessario a migliorare la stessa.

Ovviamente esistono diverse scuole di psicologia e diversi stile d’intervento, lo specifico comune è nella figura dello psicologo,  in grado di riconoscere e intervenire su aspetti psicologici rilevanti. Anche lui si occupa di migliorare la prestazione, ma il suo approccio riguarda la sfera psichica nella sue specifiche interferenze con l’attività sportiva. Training autogeno, ipnosi, tecniche di respirazione possono rientrare nel bagaglio tecnico dello psicologo sportivo.

Fin qui quello che la Consulenza filosofica applicata allo sport non è.

E’ abbastanza semplice, più complicato invece è definire in positivo il quadro della Consulenza filosofica. 

Potrebbe aiutarci la testimonianza di alcuni sportivi di fama mondiale che hanno fatto riferimento all’uso della filosofia nella loro attività sportiva. Kobe Bryant, stella NBA, ha citato il filosofo stoico Epitteto in un’intervista con The Players’ Tribune:

Forse qualcuno che si sarebbe aspettato di conoscere delle tecniche filosofiche da applicare in un rapporto frontale da questo articolo. Sarà deluso. La filosofia non si sputtana con due parole. “Se vuoi puoi!” non è filosofia e per quanto ci riguarda non è niente, se non marketing, speculazione, imbroglio. Però non sono parsimonioso di parole, qui puoi trovare un esempio di contenuti filosofici applicati alla pratica sportiva nella terza età.

Epitteto è stato un grande filosofo e ha detto molte cose intelligenti. Ma la cosa che mi ha davvero colpito è che ha detto che nulla può ferirti, a meno che tu non lo permetta.

Anche Novak Djokovic in un’intervista con The New York Times, ha citato la filosofia, facendo anche riferimento ad una pratica di meditazione:

Penso che la filosofia e la meditazione mi abbiano aiutato a raggiungere un equilibrio e una pace interiore che mi hanno permesso di gestire meglio lo stress e la pressione durante i tornei.

Arsène Wenger, ex coach-manager dell’Arsenal, ha dichiarato che la filosofia è stata una parte fondamentale del suo approccio all’allenamento:

La filosofia è stata importante per me perché mi ha permesso di avere una prospettiva equilibrata”.

Ora, da queste semplici testimonianze salta fuori una cosa fondamentale: nessuno parla di tecniche o di una immediata influenza della filosofia nella prestazione sportiva. In tutte e tre i casi la filosofia ha aiutato l’atleta o il manager a trovare una nuovo approccio alla vita che si è successivamente trasferito allo sport. La filosofia ha aiutato l’atleta a diventare una persona diversa, successivamente questa nuova dimensione ha interessato la prestazione sportiva. Freud al contrario sosteneva che chi si sottopone alla psicoanalisi non è una persona migliore. Una bella pretesa, quindi, quella della consulenza filosofica.

La consulenza filosofica serve in primis alla persona.

Anche la lettura del libro di Murakami, l’arte di correre, in fondo è una testimonianza della connessione tra concezione filosofica e sport, ma il percorso dichiarato è esattamente il contrario rispetto a quello a cui fanno riferimento le testimonianze riportate sopra.

In questo caso lo sport aiuta il creativo a vivere meglio la sua professione, perché scrivere – sostiene Murakami – è un’attività pericolosa, una perenne lotta con i lati oscuri del proprio essere ed è indispensabile eliminare le tossine che, nell’atto creativo, si determinano nell’animo di uno scrittore.

Qui il “filosofo” ricorre allo sport per vivere meglio il proprio mestiere, ma dalla lettura del libro sveliamo il bluff di Murakami: la sua corsa è impregnata della filosofia orientale. Confesso che dopo aver letto il suo libro sulla corsa ho svalutato un po’ i suoi capolavori.

Murakami a parte la consulenza filosofica in fondo non si prefigge altro scopo che apparecchiare ad uso del cliente la riflessione e la comprensione profonda delle questioni che sottendono il comportamento umano e solo di conseguenza la performance sportiva. L’intervento può anche interessare direttamente l’aspetto sportivo, ma il fondamento è sempre di natura filosofica e richiede un coinvolgimento pieno dello sportivo in riflessioni filosofiche. Non c’è nessuna tecnica specifica che ti fa correre come il vento.

In questo senso la consulenza filosofica aiuta a chiarire valori, credenze e motivazioni, e a sviluppare una visione più ampia e complessa della vita e dello sport. Chi agisce e riflette è l’atleta, il consulente presenta il campo dei possibili valori di riferimento.

Semplificando di molto possiamo affermare che il consulente filosofico lavora con l’atleta (e vedremo subito che dovrebbe lavorare non solo con l’atleta) per trovare risposte alle domande fondamentali e aiutarlo a sviluppare una prospettiva più profonda e significativa della sua visione del mondo che necessariamente si ripercuote sulla sua attività sportiva.

Il concetto è abbastanza facile da semplificare: se adotti un quadro di convinzioni che ti fa star meglio, poi corri più veloce.

La notte prima di una finale olimpica non chiamerei per la prima volta un consulente filosofico, quattro anni prima sì.

In sintesi, mentre il coaching si concentra sul raggiungimento di obiettivi specifici, la psicologia sportiva si concentra sulla relazione tra mente e corpo e sulla gestione delle emozioni e delle abilità mentali utili alla prestazione sportiva, la consulenza filosofica si concentra sulla riflessione e sulla comprensione consapevole del posto che lo sport occupa nella comprensione e nel progetto di vita dell’atleta, della squadra, di una società sportiva.

È evidente come il coaching e il lavoro dello psicologo sportivo si traducano in una migliore performance sportiva, vale lo stesso per il consulente filosofico?

Onestamente bisogna dire che non lo sappiamo. Non lo sappiamo ancora. Troppo pochi sono i consulenti filosofici che sono stati coinvolti in “trattamenti sportivi” di rilevante complessità. Non abbiamo statistiche e anche reperire letteratura in merito appare abbastanza complicato.

Posso dire dalla mia esperienza di allenatore sportivo che a volte la filosofia mi ha aiutato a vincere, a volte mi ha fatto naufragare. Se non funziona un canale di comunicazione tra coach, squadra e società può succedere che un lavoro carsico fondato sulle mie convinzioni filosofiche aiuti nella caduta.

Parlavo di lavoro carsico non a caso. La mia esperienza è quella di allenatore sportivo che ne sa abbastanza di filosofia per applicare le proprie convinzioni a quello che fa in palestra. Posizione scomoda se non sei Velasco.

Ritengo che il lavoro di un coach sportivo, inserito in un contesto inconsapevole del metodo specifico dell’allenatore non possa che essere sotterraneo, almeno di non voler correre il rischio di alimentare i conflitti, apparire bizzarro, creare incomprensioni.

In un esempio di progetto filosofico per una società sportiva che pubblico alla fine di questo articolo cercherò di superare questo inconveniente: oggi, 2023, in Italia, non è maturo un intervento di consulenza sportiva che non coinvolga l’intera società sportiva, almeno per gli sport di squadra.

Qui non si tratta di un trigger come la bandana di Pantani o i tic di Nadal (vedi qui), qui si parla di una visione del mondo che ha ricadute sulla pratica sportiva.

La consulenza filosofica applicata allo sport porta a conseguenze importanti che debbono necessariamente investire il contesto sportivo nel quale il singolo atleta o gruppo opera. Diverso è l’approccio frontale con il singolo atleta che sia impegnato in uno sport individuale, ma qui il rischio di sconfinare nel campo del coaching e della psicologia sportiva è tanto alto quanto sarebbe necessaria una riflessione a parte.

Per essere chiaro presento un sintetico caso di studio di una possibile criticità relativa all’applicazione della consulenza filosofica scollegata dal contesto.

Un allenatore si rivolge ad un consulente filosofico ed affronta i concetto di equità e merito in relazione alle scelte che quotidianamente opera nel suo lavoro. Il suo problema è che ogni volta che schiera una formazione si crea mille problemi su chi far giocare.  Succede: un allenatore sportivo in fondo può essere portato a riflettere sul fatto che nella scelta della formazione titolare il merito morale abbia implicazioni maggiori di un criterio utilitaristico comunemente diffuso: gioca il più bravo. Oppure un allenatore ha le sue preferenze, non sempre fondate su criteri oggettivi.

La scelta ha una infinità di conseguenze: la gestione del gruppo, il risultato, il rapporto con i singoli atleti.

Sta di fatto che l’allenatore del nostro caso modella il suo problema con riferimento a schemi filosofici proposti dal consulente ed arriva ad una conclusione:

Il tipo che si assenta frequentemente dagli allenamenti non merita di giocare. L’allenatore preferisce far giocare un atleta più scarso che ogni settimana si allena quattro volte ed è collaborativo al massimo con squadra e staff. Sull’onda di questa visione lo stesso allenatore decide che tutti quelli che moralmente lo meritano hanno il diritto di giocare, a prescindere dal loro valore tecnico e atletico.

Questa riflessione non è assoluta, altri allenatori potrebbero arrivare legittimamente a conclusioni diverse pur con uno stesso apparato filosofico di riferimento.  

È una scelta, però, fondata su una riflessione etica.

Proudhon sarebbe più o meno d’accordo, Adam Smith no. Una lettura condivisa delle Repubblica di Platone avrebbe portato questo stesso allenatore a ponderare le inclinazioni dei singoli in funzione del ruolo che hanno nella squadra, senza alcuna valutazione morale. Nietzsche avrebbe indagato sulla superiorità effettiva di chi viola la regola e forse lo avrebbe nominato capitano se il suo gesto fosse stato una rottura della morale idealizzata in un fondamento platonico-cristiano. Basta buonismo! diremmo oggi. Il Corinthians di Socrates, che aveva una democrazia di spogliatoio di stampo comunista, si sarebbe riunito ed avrebbe adottato una decisione collettiva, non decide l’allenatore, ma la squadra, in cui l’allenatore è soltanto uno dei cittadini.

Fin qui tutto bene. Ma il lavoro non è finito.

Il nostro allenatore non è il proprietario della società sportiva e comunque deve rapportarsi ai dirigenti e agli altri allenatori. Se poi la squadra fosse una squadra giovanile ci sarebbe il fattore G. I genitori. Mio figlio è più forte e questo incapace lo tiene in panchina! Mio figlio non manca mai e gioca quello che ha mille altri impegni e si allena quando vuole!

La conseguenza brutale nel nostro caso è che dal momento che la dirigenza della società nella quale opera questo allenatore non era consapevole e non condivideva questa riflessione si è aperto un grave conflitto valoriale, che se non fosse stato gestito da un nuovo intervento di consulenza filosofica avrebbe portato inevitabilmente al disastro.

Ecco perché oggi è necessario che la consulenza filosofica si rivolga ad una platea di soggetti più ampia possibile e che addirittura coinvolga supporters, stakeholders, familiari degli atleti. Genitori, soprattutto genitori. 

Al crepuscolo dei due secoli nichilisti profetizzati da Nietzsche dovremmo ipotizzare che le società sportive si caratterizzino per i valori condivisi dai propri membri.

Ci siamo.

Apprezzo molto che un ente di promozione sportiva come la UISP consideri propedeutico un corso di base a qualsiasi attività degli allenatori all’interno dei campionati che organizza. Se lavori con noi, anche in senso lato, devi essere consapevole della nostra filosofia.

Basti pensare alla moderna terminologia manageriale con cui si descrive la vision di una società a fini economici, oppure si parla della mission. Una multinazionale può permettersi di assumere dirigenti che non condividano la visione del mondo incarnata dall’azienda? Quali strumenti hanno le aziende per rendere consapevoli i propri collaboratori della visione filosofica della dirigenza? Quando la visione è condivisa in maniera profonda è conveniente distinguere tra dirigenti e semplici dipendenti?

L’esempio più clamoroso di questa ventata filosofica che richiede neccessariamente una consulenza nelle organizzazioni sono le B Corp. Le B Corp sono imprese che si impegnano a misurare e considerare le proprie performance secondo valori ritenuti positivi, quali quelli di sostenibilità ambientale e inclusione sociale, sullo stesso livello nel quale si valutano i risultati economici. La chiave è il ritenuti per questi valori. Cosa induce un’azienda a ritenere positivo un valore? Chi monitora la conformità di queste scelte al valore?

Queste società fanno business ma credono nell’impresa come forza positiva che si impegna al massimo nel produrre valore per l’ambiente e la società. Una B corp si sottopone ad una certificazione che riguarda l’effettivo perseguimento degli obiettivi sociali che si propone per statuto.

La famosa Weltanshauung diviene un elemento costitutivo dell’impresa secondo valori ritenuti positivi oggi in determinate regioni del mondo.

La B Corp è un caso di consulenza filosofica applicata all’impresa che può essere un modello di interesse per quanto possa fare la filosofia nello sport.

Di seguito, anche a testimonianza della complessità di un intervento di consulenza filosofica, propongo la sintesi di un possibile intervento in una società sportiva.

PROGETTO DI UN INTERVENTO DI CONSULENZA FILOSOFICA RIVOLTO AD UNA SOCIETA’ SPORTIVA

Riferimenti teorici: La Repubblica di Platone fornirà un modello, tra i tanti possibili, di una società che funziona, nella quale però le inclinazioni degli individui e armonia della squadra coincidono con i ruoli invalicabili attribuiti a ciascuno. L’etica nicomachea di Aristotele ci aiuterà a comprendere la natura umana e a identificare le virtù che sono essenziali per una vita buona e appagante. Modelli contrapposti di organizzazione sono quelli di Marx, Proudhon, Stuart Mill e Adam Smith ai quali sarà fatto un rapido cenno e potranno essere utilizzati nel corso dell’intervento. Lo stoicismo antico e la Mindufulness saranno riferimenti utili alla gestione individuale degli atleti della loro prestazione sportiva.

Analisi della società sportiva: Il progetto parte dall’analisi della società sportiva e dei suoi valori. In quale contesto opera la società sportiva (professionistico, agonistico, amatoriale, di promozione sportiva)? In relazione al contesto quali sono i tratti distintivi della società? Modello di profitto economico, massimo risultato sportivo, sociale, promozionale, welfare, …

Definizione degli obiettivi: In base all’analisi della società sportiva e del contesto, sono definiti gli obiettivi della consulenza filosofica. Questi obiettivi dovrebbero essere coerenti con i valori e le virtù identificati durante l’analisi. Ad esempio: ad un obiettivo promozionale corrisponde una struttura organizzativa fondata sulla persuasione, il consenso, l’informazione, l’organizzazione di attività a forte impatto sociale e quindi il consulente filosofico sarà chiamato a sviluppare un piano d’azione non organizzativo ma che metta in luce i tratti profondi delle attività societarie esistenti o programmate. Ad esempio una ASD a carattere sociale deve sviluppare una consapevolezza sui caratteri distintivi del terzo settore, i fondamenti culturali, etici e motivazionali della propria attività, discutendo al proprio interno e sotto la supervisione del consulente sulla coerenza delle azioni positive con il quadro di riferimento.

Sviluppo di un piano d’azione: Una volta definiti gli obiettivi, sarà sviluppato un piano d’azione che tenga conto delle convinzioni filosofiche e dei valori identificati durante l’analisi della società sportiva. Questo piano d’azione dovrebbe comprendere attività come la formazione e la consulenza per il management, tecnici e atleti. Se l’obiettivo è il welfare gli atleti riceveranno una formazione che permetta di conoscere e applicare teorie filosofiche alla giusta pratica sportiva improntate all’ecologia, discipline olistiche, yoga, minduflness. Se una società opera nel terzo settore, ad esempio promuovendo attività sportiva per i detenuti, saranno affrontati con gli allenatori temi come la giustizia, l’equità nella pratica sportiva che andranno a proporre. In una squadra giocano tutti? I più meritevoli? Quale atteggiamento utilizza l’allenatore nei confronti di comportamenti di individui che violano le regole? Quali sono le regole? Quelle del carcere? Lo sport è comunque una “fuga” o la consapevolezza della propria condizione?

Monitoraggio e valutazione: Nulla è per sempre. Una volta completato il piano d’azione il Consulente filosofico, meglio, il team di consulenza filosofica, monitora e valuta regolarmente il raggiungimento degli obiettivi e apporta modifiche al piano d’azione.

Chi allena la mente? Tra professionisti e stregoni. Scegliere fa la differenza

Allenare la mente è un esercizio necessario, non solo per gli sportivi, però:

Troppo, troppo di moda sta andando il mental coach.

Dalle esternazioni di Marcel Jacobs che ha ringraziato la sua Mental Coach per il lavoro che ha contribuito alla sua inattesa medaglia olimpica, nei media è stato tutto un fiorire di interviste a personaggi più o meno famosi che dichiarano di avere un mental coach e che sembrano ansiosi di condividere con lui/lei il proprio enorme successo.

Non solo personaggi pubblici, a dire il vero pare che oggi tutti abbiano un mental coach e chissà quali conti in banca avranno i mental coach di grido, sponsorizzati da atleti, politici, attori e cantanti.

Addirittura ci sono dei coach che ti aiutano nello shopping, altri nella cucina, altri ancora nella difficile gestione del rapporto con tua suocera.

In realtà si fa un po’ di confusione tra le diverse figure professionali che strizzano il cervello di un atleta e si fanno i fatti suoi, a volte anche abusando nell’esercizio di professioni alle quali non sono abilitati.

A dire il vero anche psicologi e psichiatri a volte abusano della credulità filosofica del prossimo, ma nessuno li denuncia per questo.

Nel momento in cui siamo costretti a modificare la nostra quotidianità e programmiamo il nostro stile di vita futuro, magari con tanti buoni propositi, sapere a chi affidarsi e scegliere il giusto approccio è decisivo. Un video creato per dirigenti di squadre sportive, ma che è utile un po’ a tutti può darci una mano a fare chiarezza.

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Allenare la fortuna, si può!

Si può allenare la fortuna?

Questa strana domanda mi è comparsa in una chat tra amici, mentre scherzavamo di sport.

Ho risposto con una battuta:

Sia che tu pensi di aver fortuna, o di non averla, hai ragione.

Parafrasi di un aforisma abusato e scontato.

Mi sono subito sorpreso: quella che era soltanto una battuta messa lì per abitudine a citare l’ovvio in realtà mi sembrava una buona risposta ad una buona domanda.

Un po’ di fortuna si allena.

Se poi il giorno della finale olimpica i tuoi avversari saranno presi da un attacco di dissenteria, questo no, non puoi allenarlo.

La domanda è:

Come si può allenare la fortuna?

La fortuna si allena sfidandola.

Del resto Virgilio ci insegna che Audentes fortuna iuvat. Quando vedo tatuata questa frase su un muscoloso bagnante o sul corpo temprato di un atleta mi chiedo: ma lo saprà che fine ha fatto Turno?

Sì, perché Turno usa questa frase per incitare i suoi ad attaccare Enea. Come è finita lo sappiamo tutti.

Attenzione però, Virgilio parla di audentes, non di audaces, come comunemente si dice… inoltre dalle fonti storiche non risulta che Virgilio avesse tatuaggi.

Nell’audens prevalgono valore e coraggio, l’audax, invece, è sfrontato, temerario, impavido, anche arrogante.

L’audens è fico, l’audace è un pirla.

Chi vuole allenare la fortuna si allena ad aver confidenza con il suo limite… confidando di poterlo superare.

Il punto è che gli sportivi che conquistano quello stato mentale che i latino americani chiamano confiancia, fiducia, sicurezza, ma anche familiarità, è senz’altro un passo avanti verso l’aver fortuna.

Non dobbiamo pensare a qualcosa di magico: allenare la fortuna significa prendere confidenza con il massimo che si può ottenere da se stessi.

C’era una squadra di pallavolo che aveva una incredibile fortuna in battuta: spesso la palla colpiva il nastro, mettendo in seria difficoltà l’avversario. Dato che l’allenatore è un amico decisi di andare a scoprire il perché di questa fortuna leggendaria. Entrai in palestra mentre questa squadra concludeva l’allenamento. L’allenatore aveva teso una fettuccia tra le asticelle laterali, a circa trenta centimetri dal nastro superiore della rete. Le ragazze dovevano far passare le proprie battute tra nastro e fettuccia. L’esercizio allenava ad una battuta particolarmente efficace, ma aveva come prodotto secondario una buona percentuale di nastri/punto. Al contrario era da mettere in preventivo una percentuale maggiore di errori. E’ un esercizio che facciamo ad ogni allenamento, mi aveva spiegato l’allenatore. Le ragazze si divertivano a giocare i palloni nello spazio apparentemente angusto, tenendo un punteggio e vantandosi dei propri record. Ecco spiegato il trucco della loro fortuna.

Steve Prefontaine, leggendario mezzofondista statunitense, visse il limite tra audens e audax: la sua tattica nei cinquemila era quella di partire a tutto gas…ed arrivare al traguardo nella stessa maniera. Non sempre andava come doveva, spesso “Pre” aveva la fortuna di veder cedere i suoi avversari prima che lui stesso finisse la benzina. Le sue vittorie e i suoi records però non dovevano nulla alla buona sorte, Steve si divertiva a giocare e scommettere e più volte ha dichiarato che la sua sfida fosse una scommessa: mi fermo prima io o si ferma lui?

Ottenere meno che il tuo massimo significa sacrificare un dono, sosteneva Prefontaine.

Il dono della fortuna che hai o non hai allenato, aggiungerei.

Ti dico “ti amo!” o ti disegno un cuoricino?

Segno, segnale, simbolo e benevolenza nella comunicazione sportiva.

In qualsiasi attività umana si comunica. Anzi, la comunicazione è forse il principale fattore di qualità nelle attività umane. Lo sport non fa eccezione.

Si comunica per uno scopo o anche per piacere. In questa fase della mia vita faccio anche nuoto libero. Uno sport che, per come lo pratico io, sarebbe altamente asociale. Nessuna comunicazione è possibile in acqua. Due chiacchiere nello spogliatoio con chi nuota nella corsia a fianco sono soltanto un piacere, non c’è nessuna necessità apparente di parlare. La mia è una necessità di relazione, non pratica.

Al di là della distinzione del tipo di comunicazione in funzione del fine (relazionale o pratico) distinguiamo diverse modalità di rapportarci agli altri: parole, gesti, comunicazione para verbale, quella che impegna la postura del corpo, le espressioni impercettibili, gli atteggiamenti.

Possiamo immaginare i diversi approcci comunicativi come se fossero delle frequenze di una stazione radiofonica vecchia maniera, onde medie, onde corte ….

Ma una radio oggi può trasmettere anche sul web, in TV e la stessa TV può essere satellitare o digitale e soprattutto può trasmettere notiziari, varietà, pubblicità e solo musica.

Non tutte le comunicazioni di questa radio saranno dello stesso livello e sulla stessa frequenza. C’è però un fatto: la linea editoriale, che è il messaggio che la radio vuole trasmettere, passa attraverso la composizione di tutte queste scelte comunicative.

Nel corso della giornata la nostra comunicazione si comporta come quella di una emittente radiofonica, diversificando la nostra scelta comunicativa.

Oggi è di moda distinguere tra comunicazione verbale, para verbale, cinesica, prossemica… Abbiamo scoperto che si può comunicare digitando su una tastiera, parlando, sorridendo, assumendo posizioni del corpo accoglienti, intimidatorie, concilianti. Si può parlare troppo vicino all’interlocutore al fine di comunicare una minaccia, o da una zona di rispetto, per mettere a suo agio chi ci sta di fronte.

Nella comunicazione più esplicita la qualità del messaggio è diversificata, guardiano queste espressioni:

  • passami un bicchiere d’acqua,
  • ti amo,
  • oggi ho la febbre
  • un sorriso
  • 🙂

ci rendiamo subito conto che sono forme di comunicazione molto diverse tra loro e che mettiamo in campo con disinvoltura. Sussurrare ti amo, disegnare un cuoricino o inviare un messaggio whatsapp con la faccina che lancia un bacetto non sono la stessa cosa.

Ora noi possiamo guardare i messaggi sotto diverse lenti d’ingrandimento. Per la comunicazione sportiva e per calibrare la sua efficacia credo che sia utile utilizzare gli strumenti che ci mette a disposizione la semiotica. Questo apparecchio radiofonico, chiamato semiotica, si sintonizza su tre canali di comunicazione : segnale, segno e simbolo. Ne aggiungeremo un quarto: la benevolenza.

Per approfondire e per non lasciar dubbi sul fatto che siano solo chiacchiere li andiamo a vedere nel contesto di uno sport di squadra come la pallavolo.

Segnale: il segnale è una forma prescrittiva. I segnali più noti nella nostra attività quotidiana sono quelli stradali: non superare il limite di velocità, divieto di svolta a destra, senso unico.

L’alzatrice indica con le dita lo schema al quale dovranno attenersi le attaccanti, la centrale comunica la zona di campo che proteggerà con il muro e il coach prescrive la zona di campo nella quale battere.

Il segnale non implica nessun coinvolgimento: va eseguito.

Questo perché il semplice appartenere ad una comunità significa accettare l’insieme delle regole che determinano la rete di relazioni. Se c’è un’autorità che decide quali strade sono percorribili a senso unico e ci deve essere qualcuno che lo indichi. Tutti sono tenuti a rispettare il segnale, altrimenti sarà il caos.

L’effetto motivante del segnale è generalmente considerato irrilevante.

Tuttavia le cose non sono sempre così scontate. L’effetto può essere diverso se il segnale è riconosciuto come un mezzo funzionale a garantire una serie di principi condivisi. Se ad esempio il mio allenatore mi dice di raddoppiare il muro sul centrale e questa cosa è stata dibattuta e analizzata in squadra e sono convinto che quella sia la soluzione migliore, il segnale è un buon rinforzo della mia motivazione. In questo caso, pur assolvendo alla funzione di segnale, almeno in parte, il gesto diventa simbolo della vision di una squadra.

Al contrario, se non vi è una relazione inclusiva e/o condivisa, il segno del coach potrà essere demotivante e deviante.

Un giocatore è seduto in panchina quando un componente dello staff lo invita ad andare a scaldarsi. La comunicazione verbale e paraverbale dello staff è chiaramente un segnale. Il giocatore, però, non condivide la scelta, non si sente di entrare per pochi punti, è in polemica. Con il dito e una smorfia fa segno che no, lui non entrerà. Quel momento, nato da un segnale al quale si è risposto con un segno è il simbolo del suo stato d’animo.

Segno: Il segno è qualcosa che convenzionalmente sta per qualcos’altro.

Dobbiamo questa definizione alla filosofia medievale (scolastica). Prima ancora Agostino distinse i segni in naturali (le nuvole sono segno della pioggia) e artificiali o intenzionali (escogitati con l’intenzione di comunicare qualcosa).

Mentre il segnale è prescrittivo, il segno è comunicativo.

La gran parte delle comunicazioni in una squadra di pallavolo è fatta di segni. Il problema del segno è che da una parte c’è il comunicante, dall’altra l’oggetto della comunicazione e in mezzo il segno che deve essere letto dal destinatario della comunicazione e che fa riferimento al significato. La comunicazione avviene in base ad una convenzione esplicita o implicita.

Non sempre quello che io voglio dire corrisponde a quello che viene letto dal mio interlocutore.

Se parliamo di posto 4, fast, veloce, sette e nove dobbiamo essere d’accordo sul significato di questi segni. Il riferimento a quello che è significato deve essere ben esplicitato da chi parla e colto da chi ascolta. Questo è un problema non da poco. Per risolverlo De Saussure introdusse il concetto di gioco linguistico: una parola (ma il discorso vale per qualsiasi segno) non ha un senso proprio, ma solo all’interno di un gioco, come un pezzo all’interno di una scacchiera nel gioco degli scacchi. Il pezzo del cavallo al di fuori di una partita non ci dice molto, sappiamo quali mosse gli sono consentite e la posizione iniziale che deve assumere sulla scacchiera. Ma se un cavallo tiene sotto scacco il re, assume un valore e un ruolo ben diverso da quello di un ipotetico cavallo in un’altra scacchiera.

Perché i segni siano efficaci è necessario mettere in chiaro i termini della comunicazione in una squadra, come in qualsiasi altro team. Perché la comunicazione di segni sia efficace è necessario che in una squadra ci sia un quadro di riferimento condiviso. A volte questo quadro esprime valori astratti con segni concreti. Mi spiego. Nelle mie squadre spesso invito le atlete ad essere più ignoranti o più cattive. A volte dico loro che in campo debbono essere belve, ma qui rientriamo nel capitolo dei simboli. Se una persona che non condividesse la scacchiera di riferimento mi ascoltasse sarebbe giustamente indignato, così come sarebbe perplesso un tale, che non avendo mai sentito parlare di scacchi, sentisse dire che la regina ha mangiato il pedone.

In realtà queste espressioni, ignoranza , cattiveria, fanno parte di un quadro che richiama un atteggiamento mentale coraggioso, aggressivo, tenace… : questi segni possono essere letti in maniera corretta soltanto da chi condivide il quadro di riferimento ed è in possesso del giusto codice di interpretazione.

Qualcuno potrebbe osservare: ma se il segno della parola cattiveria significa aggressività e coraggio, perché non utilizzare sinonimi più chiari?

La risposta è nel fatto che il segno è una convenzione che nel campo sportivo può essere utilizzata per evocare una vision condivisa e più efficace nell’ambito motivazionale. Tutte le squadre ambiscono ad essere aggressive e coraggiose, ma se ci richiamiamo all’ignoranza facciamo riferimento ad un vissuto comune che ci coinvolge in maniera diretta, identitaria.

Naturalmente è più che corretto (e comune) rivolgersi alla propria squadra utilizzando segni chiari, univoci e sintetici: come quelli di un matematico che scrivesse un’equazione alla lavagna. In genere le squadre apprezzano questo tipo di comunicazione, la quale ha l’indubbio vantaggio di non richiedere sforzi ermeneutici.

Il segno non solo deve essere letto come un pezzo su una scacchiera, ma richiede la giusta predisposizione di chi parla e di chi ascolta. Pure avendo una natura prevalentemente razionale, il segno implica, se lo si vuole utilizzare correttamente, una relazione valoriale tra i due interlocutori, i quali al loro volta sanno bene quale sia il significato dal segno.

Simbolo

Il simbolo è qualcosa che per sua natura riporta qualcosa del significato.

Nell’antica Grecia, quando si stabiliva un patto, lo si scriveva su una tavoletta di terracotta, che poi si spezzava in due parti. Ognuno dei due contraenti ne conservava la metà. Stessa cosa quando due famiglie stringevano amicizia. Questa tavoletta era chiamata σύμβολον [symbolon], sum = insieme e ballo = gettare. I due pezzi sono legati dalla loro natura originaria.

I più grandi interpreti del simbolo sono stati Agostino e Jung. Ma, senza entrare nel merito delle loro filosofie, possiamo dire che il simbolo è un segno, il quale, ha differenza di quest’ultimo, assume un suo significato proprio.

La parola torre non ha nulla a che vedere con la costruzione con una forma caratteristica posta a presidio di un castello, di un promontorio, di un varco.

Torre è una convenzione linguistica che abbiamo stabilito per significare quel tipo di manufatto.

Però se usassimo la torre come simbolo del coraggio della forza converremo che l’immagine di una bella torre rimanda di per sé all’idea del coraggio. Abbiamo appena visto che chiedere ad una squadra di comportarsi come belve ha un registro diverso che chiedere cattiveria e aggressività.

Perché il simbolo sia tale è necessario un coinvolgimento intimo di chi è chiamato ad interpretare il simbolo. Se immagino una belva la carico di un significato intimo e particolare, diverso da quello descritto dai segni cattiveria e aggressività.

Quello che segno e segnale possono assumere solo per riferimento ad un vissuto comune o per convenzione, il simbolo lo possiede per sua natura e per la relazione che il simbolo assume con l’interlocutore.

Per questo Jung sosteneva che non esistono contenuti simbolici se non in riferimento ad un soggetto che attribuisce un senso al simbolo stesso.

Nel caso della nostra torre: la costruzione porrebbe rimanere per millenni a svolgere il suo ruolo di presidio inattaccabile senza che nessuno senta di associarla all’idea del coraggio. Solo quando un soggetto le attribuirà questo richiamo si crea una relazione tra il simbolo e il concetto di coraggio. Tuttavia la torre non è un segno arbitrario e convenzionale: nelle sue stesse caratteristiche ha un riferimento al coraggio. Una piuma non potrà mai essere simbolo di coraggio.

I simboli sono straordinariamente efficaci perché hanno una funzione pre-concettuale: possono essere utilizzati in luogo del concetto, incidendo maggiormente sull’intimo dell’interlocutore. Utilizzare un simbolo è molto utile con squadre giovanili ed anche per lasciare un margine di riflessione e convinzione al singolo atleta su situazioni complicate.

Dopo una brutta partita potrei parlare alla mia squadra di una generica mancanza di idee, di un atteggiamento sbagliato, potrei contestare punto su punto, spiegare dove abbiamo rinunciato a giocare. Per esempio potrei dire: non ho visto giocare primi tempi, oppure non abbiamo coperto i nostri attaccanti…sicuramente sarei efficace e didascalico perché utilizzereidei segni chiari e univoci, ma il coinvolgimento dei giocatori potrebbe essere pari a quello che hanno davanti alle previsioni del tempo.

Possiamo trasmettere segnali (devi coprire chi attacca) ed esprimerci con segni (la descrizione di quello che è successo).

In questi casi la nostra comunicazione sarebbe neutra, asciutta, analitica.

Se invece dicessimo: ieri ho visto il buio in campo!

Useremo una immagine forte, affidando al buio il concetto delle situazioni negative, e lasceremo ai nostri ragazzi lo spazio di coinvolgere le loro coscienze nella lettura del simbolo utilizzato. Naturalmente saremmo meno chiari e il rischio di fraintendimenti sarebbe più alto. Utilizzare i simboli nella comunicazione sportiva è un rischio: si può ottenere tanto, ma anche perdere tutto.

Sentimenti, la benevolenza : I sentimenti non sono sul piano di simbolo, segni e segnali. I sentimenti non comunicano, ma si comunicano. Un sentimento quindi potrebbe essere significato da un simbolo (un cuore a simboleggiare l’amore) o da un segno (le parole ti amo). Insomma: i sentimenti non c’entrano molto se parliamo di comunicazione.

Perchè allora voglio parlare di sentimenti e comunicazione sportiva?

Perchè senza un sentimento di benevolenza non si può comunicare nulla di positivo!

Più si sale nella gerarchia della comunicazione (segnale – segno – simbolo) più c’è bisogno dei sentimenti di empatia, solidarietà, simpatia, affetto, condivisione… Una gamma di sentimenti positivi che possiamo anche raggruppare sotto il significato di un generico volersi bene.

In termini filosofici, ricordando il concetto del bene in Platone, possiamo dire che la benevolenza è la luce che illumina il significato. Un atteggiamento negativo nei confronti della persona che ci comunica qualcosa, anche che ci sta fornendo solo un segnale tecnico, ci porterà a deformare la nostra lettura dei simboli e dei segni utilizzati. A dire il vero vale anche il contrario: un atteggiamento positivo ci porterà ad ignorare tutte le comunicazioni negative che ci sono affidate e questo, a volte, è il problema delle persone che definiamo ingenue.

Tutte le volte che ho fallito la comunicazione è perché non sono riuscito a stabilire questo sentimento di benevolenza tra me e l’atleta o la squadra che allenavo.

Tuttavia non dobbiamo confondere questo volersi bene con il ricalco della PNL: anche se tutti e due in fin dei conti svolgono la stessa funzione non sono della stessa natura e non hanno la stessa finalità.

Il canale di comunicazione che apre il volersi bene non è quello falso che ci propone la PNL con rapport e ricalco e che il più delle volte infatti è utilizzato per ingannare la gente, vendendo loro il Folletto di cui non hanno bisogno. Non c’è bisogno di distinguere mappe e territorio: la nostra comunicazione funziona ed è autentica se ci prendiamo cura con positività della persona a cui è destinata.

I care!… a prescindere dal fatto che abbia da venderti qualcosa.

La buona disposizione d’animo verso l’altro è come la luce per la vista: illumina gli oggetti in modo che possano essere osservati in tutta la loro completezza. Senza luce tecnicamente vediamo bene, ma continuiamo a brancolare nel buio.