Maurizio De Giovanni, In fondo al tuo cuore

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Camilleri, De Luca, Gadda… ci trovi un pò di tutto in questo riuscitissimo affresco di una Napoli colta nel mezzo del ventennio fascista. Gli occhi verdi del Commissario Ricciardi, le donne della sua vita, con le quali non riesce a stringere rapporti veri, il brigadiere geloso e impacciato, ma forte e determinato nella sua missione di tutore della legge morale prima che di quella scritta. La trama è semplice ma non troppo e non manca il colpo di scena finale. Questi sono solo alcuni dei pregi evidenti di un libro che però non si riesce a leggere tutto di un fiato. Il motivo si comprende facilmente: troppo belle le pagine perché l’autore abbia il coraggio di tagliare, sottendere, tacere. Il detto è troppo e il non detto che rimane é troppo poco perché il lettore se ne possa andare in cerca di avventure con la propria fantasia. Ecco svelato il difetto: un libro che rimane troppo dell’autore e che entra troppo poco nei sogni di chi lo legge….

Carofiglio, una mutevole verità.

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Diciamo subito che il libro è agile, veloce, piacevole. Fine delle buone notizie. Carofiglio, purtroppo e nonostante la buona fama di cui gode, rimane un autore inutile, impalpabile, insignificante. L’autore è un magistrato e trae le sue trame dall’esperienza professionale, questo non giustifica l’inconsistenza del tessuto narrativo. Qui il lettore capisce immediatamente come andrà a finire: la leggera e gradevole ambientazione, i tratti sfumati dei personaggi, qualche trovata stilistica (mai utile e spesso sfoggio di vacue abilità narrative) non provocano il pathos necessario ad una lettura che prosegue senza sussulti fino alla scontata conclusione. Un libro eccezionale se Carofiglio avesse scritto per parenti, amici, colleghi: meno bene se pubblichi per Einaudi!

Requiem, per Marco. Un plagio ai danni di Tabucchi.

 

REQUIEM

 

Nerone non si fece attendere. Il tredicesimo anticiclone tropicale di un’estate che ne avrebbe contati 14 si era già fatto sentire durante la notte e le prime ore del mattino, nonostante i canali meteo ne preannunciassero l’arrivo solo nel pomeriggio. Ormai eravamo a settembreinoltrato mail caldo umido non lasciava dormire. Molte persone erano insolitamente nervose a causa delle veglie al canto dei grilli che ormai disturbavano il sonno da mesi. I vari telegiornali facevano a gara nel segnalare i disturbi più incredibili dovuti al caldo. Mia moglie era rimasta scandalizzata da un servizio su presunte allucinazioni che avrebbero colpito alcuni turisti sul litorale romagnolo.  Sarà stata la birra!, provai a sdrammatizzare. E’ che per non parlare della crisi economica se le inventano tutte!, chiuse lei il discorso. Comunque i danni c’erano sul serio: a causa dei soliti problemi di approvvigionamento energetico molte zone erano rimaste senza elettricità per quasi tutta la notte. I condizionatori non avevano potuto lavorare e i frigoriferi non avevano freddato acqua e bibite.  Al bar della stazione ferroviaria si lamentavano di aver perduto i gelati che si erano sciolti nei congelatori. Siamo onesti, noi, si vantava l’esercente, i gelati sciolti li buttiamo. Gli altri li ricongelano e amen!

Parecchi pendolari rimasero a casa. Il treno è vuoto!, esclamò un signore già sudato alle sette di mattina, mentre ci sfilavano davanti i vagoni meno affollati del solito. Vuoto si fa per dire. Il signore, in abbondante sovrappeso come molti pendolari, seguì correndo lo scorrere del treno con l’intento di infilarsi per primo nel vagone, all’apertura della porta. Appena i freni fischiarono e si aprì un pertugio nelle vecchie  porte a soffietto del vagone mai restaurato, l’uomo, con un balzo agile, portò all’interno del convoglio il suo quintale abbondante, incurante di una donna di colore che si apprestava a scendere e che quasi fu scaraventata a terra dall’irruenza del ciccione. Il tizio, una volta portata la sua enorme pancia nel vagone, era a metà dell’opera. Ormai in trance agonistica, si guardò intorno, avvistò il posto vuoto e ci si buttò sopra esausto per l’unico gesto atletico che avrebbe caratterizzato la sua pigra giornata.  Anche io, utilizzando la perizia acquisita in anni di pendolarismo, trovai un posto a sedere, ma con minor impeto.

Ad ogni stazione salgono donne in cinta di dieci mesi, bambini, vecchi, mendicanti, maniaci, studenti fuori corso e raramente in corso. Non sale mai il controllore. O, almeno, io non l’ho mai visto salire. Ma soprattutto salgono in tanti, tanti uomini e tante donne. Per molte donne passa una vita nel salire e scendere da treni affollati per raggiungere il posto di lavoro. Lavorare, spesso agli ordini di un uomo,  tornare a casa, badare alla famiglia, al proprio uomo e ricominciare da capo. Questo è quello che succede a molte donne che vedi invecchiare viaggio dopo viaggio. Gli uomini, no. Gli uomini si godono il viaggio, ridono, scherzano. Non l’ho mai capita questa cosa, ma per loro il tempo non pare passare come per le donne.  Con l’aggravarsi della crisi è cambiato anche l’umore dei pendolari. Oggi molti si ritengono fortunati di aggiungere al loro orario di lavoro un paio d’ore all’andata e un paio d’ore al ritorno su un treno che raccoglie ogni angolo della più variegata natura umana. Sembrano essere grati al mondo di avere il problema di raggiungere il posto di lavoro, sembrano essere grati al mondo di avere un lavoro.

Anche sul treno dei pendolari la gente viaggia e a me  piace leggere il viaggio sulle facce della gente. Sulla linea Cassino-Roma si intuisce quasi sempre il percorso un po’ annoiato di chi ogni giorno raggiunge quello che è un luogo necessario della propria esistenza, diverso e lontano dal luogo naturale della propria vita. I veri viaggiatori, quelli che partono verso qualche posto, sono pochi. Utilizzano la linea Cassino-Roma per raggiungere Roma Termini dove ad attenderli è il treno per un viaggio in Italia o la navetta per Fiumicino. Questi veri viaggiatori sono annoiati pure loro. Considerano il viaggio sulla linea Cassino-Roma come un inutile trasbordo verso il vero viaggio. Il resto sono facce stanche di pendolari che meriterebbero di viaggiare un po’ più comodi ed in orario. Ma ormai si lamentano in pochi. Molti commentano che  il governo Monti prima o poi taglierà anche questi treni sgangherati e allora saranno problemi seri. Qui si viaggia quasi gratis e così molti si possono permettere di guadagnare ottocento euro e possono continuare a fare i pendolari. Se dovessimo prendere la macchina? Chi potrebbe più  permettersi di fare il pendolare? E poi a che ora dovremmo partire? Per fortuna che il treno dei pendolari della linea Cassino-Roma è dimenticato anche da Monti. Ma prima o poi Monti se ne ricorderà. La Troika gli dirà che l’Italia spende troppo per far viaggiare i pendolari e allora sì che saranno problemi. Più o meno queste cose si mise a commentare anche il ciccione che già era sudato alle sette di mattina e che contento aveva esclamato: il treno è vuoto! Dal suo quasi comodo posto a sedere argomentava saccente e quelli che erano in piedi intorno a  lui annuivano ammirati. Soprattutto quella cosa della Troika faceva un grande effetto. Quelli che stavano seduti leggevano, ascoltavano musica o sonnecchiavano. Quelli che stavano seduti pensavano che in fondo la linea Cassino-Roma non era tanto male e che era meglio non lamentarsi. A conforto dei pensieri di chi stava seduto  il treno arrivò puntuale alla stazione di Roma Termini.

Mi ero fatto concedere un giorno di ferie, ma avevo preso il treno di buon’ora per via dell’appuntamento. Non potevo tardare ed era meglio muoversi con anticipo. Eppure, preso dalla routine del pendolare, mi resi conto di non avere più tanta voglia di farmi trovare all’appuntamento. Mi misi in fila ordinata dietro alla processione di viaggiatori che risalgono il treno e che sembrano salmoni intenti a saltare il fiume al contrario. Ogni nostro movimento è un passo verso la rete che ci farà secchi. E’ meglio prendersela comoda. Ovviamente.

AI respingenti c’erano due ragazzi incollati tra loro. Lei aveva risalito la corrente insieme a me, lui l’attendeva chissà da quanto. Si baciarono. Non fu un bacetto casto. Lei gli scompigliò i capelli, lui prese ad infilare le mani dappertutto. Con quel caldo la ragazza indossava solo una magliettina e dei bermuda, insomma le mani agivano voluttuose sulla pelle nuda della ragazza. Così, si misero a pomiciare alle 8 di mattina, davanti a tutti. Erano secoli che non mi trovavo dinanzi a questa scena. A volte, da ragazzo, più che spettatore ne ero stato protagonista.

All’appuntamento avrei dovuto spiegargli anche questo. Quando frequentavamo lo stesso corso di chitarra, ci incontravamo davanti al liceo e raggiungevamo casa dell’insegnante di musica, dalle parti di Piazza Tuscolo. Ci piaceva fare quattro passi, prendere l’autobus, fare scherzi a chi incrociava le nostre vite spensierate, ridere del mondo. Ma poi conobbi una ragazza, me ne innamorai con la passione eterna con cui ci si può innamorare da adolescenti. Quelle passioni che durano tre mesi. Pure lei frequentava il corso di chitarra, chissà perché poi. La realtà e’ che qualsiasi cosa facessi me la trovavo davanti. Comunque il fatto è che io smisi di andare al corso di chitarra insieme a lui. Smisi anche di ridere del mondo, se è per questo. Lui non me ne chiese mai conto, ormai sono passati trent’anni. Trentuno, avrebbe puntualizzato il precisetto. Però, visto che mi ci trovavo, avrei dovuto  spiegarglielo e magari chiedergli scusa per non averlo più accompagnato al corso di chitarra. Magari se all’appuntamento ci capiterà di incrociarla potrebbe dire anche lei due parole di scuse. Tanto per darmi una mano, anche se, onestamente, lei non c’entra nulla. Sono trent’anni che non vedo anche lei, però sono sicuro che una parola di scuse vorrà dirgliela. Sì, è vero che lui non me lo ha mai rinfacciato. Però lo so che ci è rimasto male. Come faccio a saperlo? Lo so e basta. Insomma mentre stavo immerso in questi pensieri mi ritrovo davanti al bar Ciao Autogrill della stazione Termini. Al piano superiore, una specie di immenso soppalco che si affaccia sul grande atrio della stazione, hanno aperto uno spazio  con tavolini e poltroncine di acciaio. Se non fosse Roma-Termini, che è sempre un po’ degradata, sarebbe un posto carino. Salgo le scale e mi ritrovo ad ordinare un cappuccino ed un cornetto. Prende anche una spremuta? C’è l’offerta,  mi dice la tipa della cassa. Ha due occhi neri che ti penetrano dentro le viscere. Non posso resistere a quello sguardo che costa mezzo euro. Per cinquanta centesimi in più prendo pure la spremuta. E’ stata gentile la ragazza, in fondo per lei è solo lavoro in più, non ci guadagna mica. Visto che debbo pagare tre euro,  oggi ho un appuntamento e voglio chiudere un po’ di conti, pago con una banconota da cinque e le lascio per mancia i due euro di resto. Non lo faccio quasi mai, però quella mattina mi sono sentito di lasciare due euro alla ragazza che mi ha aveva scrutato l’anima per chiedermi se volessi una spremuta.

La ragazza mi serve al tavolo e mi si siede vicino. Lo sa che queste arance vengono dalla Spagna?, mi fa. Ha due grosse mani, sembrano proprio arance con cinque dita. No, però avrei potuto immaginarlo. Perché, mi chiede tutta pensierosa,compriamo arance dalla Spagna quando ne abbiamo tante in Sicilia? Sarà per la globalizzazione?, prova a insinuare.

 No, dico mostrando di sapere il fatto mio, non è una questione della globalizzazione. Credo che portare una cassetta d’arance a Roma dalla Sicilia o dalla Spagna sia la stessa cosa. Poi c’è l’euro. E allora tanto vale considerare la Spagna come fosse la Sicilia. Sarebbe diverso se mi avesse detto che vengono dalla Cina, allora sì che avremmo parlato di globalizzazione.

 La ragazza posa il mento sopra le sue mani che se ne stanno incrociate sul tavolino. Il suo viso, piuttosto appuntito, sembra sprofondare sui dorsi delle mani. Non è una ragazza grassa, però ha delle braccia grasse e delle mani smisuratamente cicciotte. Mi pare di aver capito che ha anche delle caviglie grosse. Detesto le caviglie grosse nelle donne. Non mi sembrava particolarmente alta quando era dietro la cassa. Eppure deve esserlo, perché è molto curva in quella strana posizione. Perché, che differenza c’è tra la Cina e la Spagna?, mi domanda come per sapere se conosco la risposta esatta. La Cina è più lontana, dico io per levarmela di torno. Ma senti questo, sbotta la ragazza della cassa con le mani grosse come arance, che cosa c’entra la lontananza adesso? Mi fece perdere la pazienza, mi sentì imbarazzato e cominciai a bagnare il cornetto nella spremuta, invece che nel cappuccino. Sa, ho un appuntamento, tagliai corto, mi debbo sbrigare. Uno che si deve sbrigare non si ferma a fare colazione al bar, rispose sempre più insolente la ragazza. Eppoi, perché ha bevuto prima il cappuccino e ora intinge il cornetto nella spremuta d’arance. O lei è molto strano, o è molto nervoso!

Quanti anni hai, feci io? Ventuno, disse lei. Beh, a ventun anni dovresti aver un po’ di rispetto per uno che ne ha cinquanta. La ragazza dalle mani che sembravano arance con cinque dita si fece due risate. Ah, ah, non è più tempo di roba come il rispetto! Ma non devi lavorare, le chiesi? Ho finito il turno alle 8! Sa, mi disse, in sei ore avevo fatto in tutto due euro di mancia: dalle due alle otto vengono solo poveracci. Poi arriva lei e mi lascia due euro tutti insieme. E’ ricco?

Le sembro ricco?

No, infatti. Per questo voglio farti un regalo. Ti dispiace se di do del tu? Non sei ricco e mi hai lasciato due euro di mancia. C’è qualcosa di strano. Dammi la mano. E allungò le arance  con cinque dita nel tentativo di afferrare la mia mano sinistra. La ritrassi e le chiesi se fosse matta. No, non sono matta, però mia nonna era una zingara.

Tua nonna zingara? E allora perché tu… ma non sapevo come continuare.

Io non chiedo l’elemosina e non rubo? Prima la storia del rispetto, ora quella delle zingarelle che rubano. Quanto sei scontato! Mi lasciai prendere la mano e la cassiera del bar o zingara che fosse si fece seria. Il tuo amico  ti aspetta. Non devi essere contento, però neanche triste. Il tuo amico ti aspetta con il tuo passato, non con il tuo futuro. Lui può regalarti il passato, per il futuro è tutta un’altra storia. Quando lo vedi cerca di trovare le parole giuste, non regalare questa giornata a Nerone. Vorrà giocare con te un’ultima volta. Non porta rancore, ma è deluso, hai fatto trascorrere troppo tempo senza di lui. Alcune cose del tuo passato ti piaceranno, altre meno. Ma oggi dedicati al tuo passato migliore, chiudi i conti, immergiti e riescine fuori, altrimenti per te non ci sarà futuro. Non dico che non ci sarà un buon futuro, ti dico che non ci sarà futuro. Ma, ricorda, passato e futuro sono la stessa cosa. Noi siamo stati presenti al nostro passato e saremo presenti al nostro futuro. Non esistono passato e futuro, esiste la nostra presenza. Tutto dipende da come viviamo il nostro presente.

Hai mai pensato ad una cosa?

Dimmi! feci io, ormai in suo potere.

Quando nasciamo tutti sono contenti e noi invece piangiamo. Quando moriamo dovremmo essere contenti perché ci liberiamo da questo strazio di vita e ne cominciamo una nuova. Invece chi è intorno a noi piange. Vai a capire il perché!

La ragazza mi lasciò cadere la mano sul tavolo, si alzò, mi passò dietro e mi diede un bacio sulla guancia. Non è mai facile essere presenti nel passato. Siamo strani noi uomini, hai avuto ragione a pensare ai salmoni poco fa. Loro sanno scendere e risalire la corrente, noi andiamo sempre nella stessa direzione, corriamo verso il futuro, incontro alla morte. Comunque grazie per quella storia della Cina, ah, ah, ah. Disse andandosene.

L’aria condizionata mi aveva asciugato il sudore del treno addosso, cominciai ad avere degli strani tremori. Portavo una camicia di lino sotto una giacca blu. Ebbi freddo. Subito fuori la stazione c’era un uomo di colore. Alto. Grande. Ancora giovane. Aveva buttato per terra la sua merce. L’aveva stesa alla bella e meglio sopra una grande tela a fiori. Nel caso fosse arrivata la polizia ne avrebbe fatto un fagotto e sarebbe corso via, veloce come solo i neri sanno essere. Appena mi vide mi mostrò una maglia dell’Adidas con il collo. Mi scrutò: per l’appuntamento a cui devi andare questa maglia va benone. Che ne sai del mio appuntamento? Me lo ha detto la nipote della zingara. Mi ha anche detto che avevi freddo perché ti si era asciugato il sudore addosso e che saresti passato a comprarti una maglietta dell’Adidas. Preferiresti una Lacoste con il coccodrillo, anche se il tuo amico le compra senza e risparmia un euro. Ma, credimi, quest’Adidas la fanno a Napoli, non in Cina come la Lacoste senza coccodrillo. E’ meglio, con questa storia della globalizzazione non si trova più niente di buono.

Quanto viene?, chiesi. Per te ha pagato la nipote della zingara, mi disse. Mi piegò la maglia, me la consegnò, mi diede una pacca sulla spalla, raccolse la merce nel telo a fiori, ne fece un fagotto, se lo caricò sulle spalle e se ne andò. Se ne andò senza che vi fossero poliziotti in giro.

Ora come faccio a spiegare cosa è il gioco della papera a chi non lo conosce? E’ un gioco che si praticava nel nostro liceo, il liceo Socrate. Da ragazzo avevo due passioni che riuscivano a farmi perdere la strada dei salmoni: la papera e tutte le ragazze di cui mi innamorai eternamente per tre mesi e per le quali ogni volta lasciavo solo il mio amico. Lui delle ragazze ne parlava come tutti, anche in maniera un po’ volgare, gli piacevano. Ma mai, mai una volta che si avvicinasse a qualcuna, la corteggiasse, ci facesse lo scemo. Era, anzi, piuttosto aggressivo, soprattutto con quelle che più gli piacevano. Questo non me lo ha mai detto. Si vedeva. Finiva sempre per rimanere solo, perché al liceo non ero l’unico ad innamorarsi per due o tre mesi, un po’ tutti a turno lo lasciavamo solo. Poi, a dire il vero, per la ragazza di cui ero veramente innamorato al liceo non lasciai mai solo il mio amico, perché tutto sommato lei non volle mai entrare nella mia vita.

Ma se per le ragazzine lo lasciavo solo non era così per la papera. A papera giocavamo insieme. Questo gioco è una specie di calcetto, con una tradizione e delle regole tutte particolari. Si chiama papera perché alcuni ragazzi, in uno di quei pomeriggi che il giorno dopo non ti interrogano, cominciarono a prendere a calci una paperella di plastica, finita chissà come nel campo esterno da basket del nostro liceo. La papera fu presto sostituita da un pallone, il Derby giallo, un po’ sgonfio. Non era proprio obbligatorio giocare con il Derby giallo sgonfio, ma era il mio preferito e tentammo di istituzionalizzarlo come pallone ufficiale della papera. Non ci riuscimmo del tutto perché all’epoca andava di moda il Tango, un pallone derivato da quello dei mondiali in Argentina. Il Tango sull’asfalto del campo da papera rimbalzava da tutte le parti e favoriva giocatori meno tecnici. Noi ci consideravamo una specie di Brasile della papera e volevamo sempre giocare con il Derby giallo un po’ sgonfio. A Oxford e Cambridge hanno le sfide di canottaggio, al liceo Socrate abbiamo la papera! Non c’è niente di strano. A volte riuscivo a giocare a papera dalla mattina alla sera. Scavalcavamo il recinto, sfidavamo la fame, la pioggia, il freddo e il professore di educazione fisica. Il professore di educazione fisica era stato del tutto esautorato dal suo ruolo, perché all’ISEF mica te la insegnano la papera. Eravamo una specie di club riservato ed esoterico. Nella traduzione di chi ci conosceva e con noi doveva fare i conti tutti i giorni: eravamo stronzi ed esclusivi. Era difficile entrare nel nostro club.  Lui a dire il vero era negato per il gioco. Però era generoso e coraggioso. Lo relegammo in porta. Avevamo fiducia in lui perché non aveva grilli per la testa, non se ne andava in giro per il campo e se c’era da mettere la faccia su un pallone scagliato da due metri non esitava. Insomma questa storia della papera mi venne in mente perchè alla fine delle partite lui non si toglieva mai la maglia per cambiarsi. Un po’ perché in porta non sudava tanto, un po’ perché si vergognava. Non che avesse un fisico sgradevole. Però non l’ho mai visto nudo, tranne quella volta che era sulla barella al San Giovanni. Però non ci feci caso al fatto che era nudo, perché credevo fosse morto. Per fortuna ci andai con Massimo, ci facemmo coraggio a vicenda.  Si vedeva che respirava. Però ci fece una brutta impressione.

Per farla breve, mi tolgo la giacca, mi sbottono la camicia, me la sfilo e rimango a torso nudo davanti all’entrata della stazione Termini. La cosa bella è che nessuno mi ha filato di uno sguardo. Se mi hanno guardato l’hanno fatto di sottecchi. C’è tanta gente strana in giro, è meglio far finta di niente. Però quando ho indossato la maglia dell’Adidas ho sentito subito un gran sollievo. Mentre l’indossavo ho notato l’etichetta: Made in China. La globalizzazione è strana, mi sa che Napoli o la Cina sono la stessa cosa. Però era una bella maglia bianca e stava bene sotto la mia giacca blu.  Alla stazione avrei dovuto prendere il 93 crociato o il 94, quegli autobus mi avrebbero portato dritti all’appuntamento.

Senta lei, mi disse un controllore del traffico Atac. Ma non lo sa che il 94 e il 93 crociato non esistono più? Ma come fa a sapere che stavo cercando il 94 o il 93 crociato?, dissi io. Me lo ha detto il nero che ti ha venduto la maglia dell’Adisas, rispose annoiato il controllore del traffico Atac.  Poi le si legge dagli occhi che lei cerca il 94 o il 93 crociato. Lei ha proprio una brutta cera. Faccia una bella cosa, mi consigliò. Si faccia una passeggiata a piedi, tanto è in anticipo e il suo amico l’aspetta. Mi disse lui.

 Era un ometto basso, quasi tondo, con due baffoni da birra Moretti o da ferroviere comunista, secondo il mio stereotipo del ferroviere comunista. Ora questa storia cominciava a stancarmi. Però, anche ora a ripensarci, mi meraviglio del fatto che non mi scomposi. Non volli dargli retta e misi in atto un diversivo. Mi incamminai verso piazza della Repubblica, anche se io continuavo a pensarla con il suo antico nome di Piazza Esedra. Il ferroviere comunista mi urlò dietro: ma no, dove va? Devo andare dall’altra parte, verso Santa Maria Maggiore, non ricorda? Mica si sarà dimenticato dell’appuntamento? Il mio diversivo consisteva nel saltare su un taxi e lasciare il ferroviere comunista al suo destino. Di taxi a piazza Esedra era pieno. Solo che a Roma devi chiedere sempre: chi è il primo? E il primo non è mai il primo della fila. Infatti mi rispose il terzo o il quarto. Il suo taxi era una Lancia Prisma, piuttosto vecchia. Mi accomodai sul sedile posteriore, anche se quelle rare volte che prendo un taxi viaggio davanti. Avevo idea che avrei incontrato il mio amico e lo avrei fatto sedere a fianco a me. Andiamo diretti all’appuntamento? Mi chiese il tassista. No, feci rassegnato. Mi porti al Socrate, voglio vedere se c’è ancora il campo da papera.

Il tassista mi disse che avevo proprio una brutta cera. Poi, sa, quella maglietta dell’adidas sotto la giacca è sprecata con quella faccia da funerale. Lei veste molto bene, come si vestiva nel passato.

Il passato non è passato, siamo noi che siamo passati, il tempo è sempre lì e sa cosa le dico? Il tempo è fermo. Me lo ha detto la nipote della zingara. Dissi, sperando di confonderlo e di metterlo a tacere.

Il tassista non si scompose, mi guardò di traverso dallo specchietto sopra il parabrezza, come solo i tassisti sanno fare. Interessante, un po’ Agostino, un po’ Plotino, io direi che il tempo è una intuizione pura, sa, io la penso come Kant. Però il tempo passa eccome, guardi il mio tassametro.

Senta, non credo. Per me quel tassametro corre molto velocemente, per lei, che vorrebbe guadagnare di più quel tassametro è quasi fermo. In ogni caso il tempo non c’entra nulla con un meccanismo elettronico che cambia i numeri al suo tassametro.

Sarà, disse il tassista filosofo, comunque siamo arrivati e mi deve venti euro per il tempo che è passato da quando lei è salito sul taxi!

 Il suo tempo è un bastardo! Feci io, pagando. Che poi i filosofi diventano improvvisamente cinici e tassisti. Si nasce poeti romantici e si muore tassisti cinici!

Davanti al Socrate c’era una grande folla di ragazzi. Dalle finestre pendeva uno striscione scritto con la vernice rossa. Socrate okkupato. Diceva. Ma perché lo hanno scritto con quelle brutte kk? Noi non occupammo mai. Organizzammo un paio di scioperi grossi. Uno per i riscaldamenti, l’altro perché gli Israeliani avevano sterminato tremilacinquecento palestinesi nei campi di Sabra e Chatila. Erano appena riprese le lezioni, era settembre. Io avevo alcuni amici ebrei. Non conoscevo nessun palestinese. Litigai con i miei amici ebrei. Loro sostenevano che si erano difesi. A me allora sfuggiva il nesso tra il difendersi e entrare con i carri armati in un campo profughi ponendo fine alla vita di donne e bambini. Ma il tempo non passa, perché ancora oggi mi sfugge il nesso. Organizzammo una grande assemblea pubblica. Eravamo tutti per i palestinesi, pure i fascisti. I fascisti ce l’hanno sempre avuta con gli ebrei. Eppure i miei amici ebrei sono tutti di destra! L’Assemblea era noiosa. Invitammo un funzionario dell’ambasciata israeliana e un rappresentante dell’OLP. Dove lo trovammo quello dell’OLP proprio non lo so. Ci pensarono quelli del collettivo studentesco di via degli Aurunci. Il mio amico irruppe nell’assemblea e gridò una frase del tipo:

“Sesso libero!”

Non c’entrava nulla, non so perché lo fece e dove trovò il coraggio. Però lo fece e fu l’unica voce fuori dal coro, non solo quella volta.  Forse era una vendetta perché io m’innamoravo e lo lasciavo solo. Però il mio amico è fatto così, dice sempre una cosa che non c’entra nulla e che non ti aspetti.

Ebbi fame. Davanti al Socrate, girato l’angolo, c’è un negozio di alimentari dove compriamo spesso pane e mortadella. Entro e chiedo una rosetta con la mortadella. Il norcino è un tipo lungo, stempiato, con due baffi fini e le mani affusolate che curano gli insaccati come un pianista si muove sulla tastiera.

Ma che ti succede oggi? Hai una brutta cera e mi ordini la rosetta con la mortadella? Non lo sai più che ci vuole la ciriola con la mortadella?

Le cose cambiano, feci io.

Le cose non cambiano, disse lui. Siamo noi che cambiamo. La mortadella sta sempre meglio con la ciriola. Se oggi non la vuoi è perché sei cambiato tu.

E invece ti dico che le cose cambiano perché passa il tempo, me lo ha insegnato un tassista. La zingara dice che il tempo non passa, ma il tassista mi ha chiesto venti euro per il tempo che è passato. Le ciriole oggi hanno meno mollica e le rosette sono più piene di una volta. Ciriole e rosette hanno finito per somigliarsi perché il tempo è passato e nessuno compra più le ciriole.

Il norcino si voltò verso la moglie e mi indicò. Il nostro amico è diventato un filosofo… del pane! Ah, ah: a forza di studiare greco e latino ha capito che Cicerone nun se magna!

Ti voglio fare un regalo, mi disse. Io non sono cambiato. Il tempo per me è fermo, perché ho deciso di fermarlo. La gente si muove, il tempo sta sempre lì. Ecco la dimostrazione: gli altri hanno cambiato la ciriola e ti sembra che questo abbia fatto passare del tempo da quando venivi a fare merenda con i tuoi amici del liceo. Io ho continuato a farmele portare da un vecchio fornaio, le fa sempre alla stessa maniera. Oggi entri tu e questo vuol dire che non sono passati trent’anni. Ti regalo questa ciriola con la mortadella e quando ne senti l’odore già capisci che il mozzico è lo stesso che hai sempre dato. ‘Ndo sta ‘sto tempo che passa? Mi consegnò il suo dono, incartato a metà con la carta oleata e attese il mio primo morso!

Allora è passato il tempo? No, non è passato e solo perché il vecchio fornaio ha deciso di continuare a fare le ciriole come una volta. Il tempo che muove il mondo è stato fermato da una ciriola. Se decidiamo di rimanere fermi, il tempo non passa e noi non passiamo nel tempo. Vallo a insegnare a quelli che okkupano!

Masticando lentamente per non lasciarmi fuggire il gusto della ciriola ferma nel tempo mi diressi verso il Socrate Okkupato. Sul campo di papera c’era una squadra di ragazzini. Loro non okkupavano. Giocavano a pallone. La ciriola sarà stata sempre la stessa, ma il campo era cambiato. Il tempo aveva lasciato il suo segno. Tutto era nuovo e moderno. Le porte utilizzate erano sempre i sostegni del canestro da basket, ma dietro, messe in disparte dai ragazzi, facevano bella mostra porte regolari da calcetto o pallamano, ‘che non ho mai capito la differenza. Il tappetino d’asfalto era stato sostituito da uno di quei materiali sofisticati che comunemente chiamiamo tartan e che forse adesso fanno con il materiale riciclato dai vecchi copertoni delle macchine e che dicono sia cancerogeno. In porta c’è un ragazzo un po’ goffo con una polo gialla. Gli passano indietro la palla. Può prenderla solo con i piedi, è la regola che c’è sempre stata: il portiere di papera non può prendere mai la palla con le mani, altrimenti è rigore. Il ragazzo si muove a scatti, riesce ad anticipare l’avversario e tocca il pallone verso un compagno. L’avversario più vicino è una ragazzina, velocissima di testa e di gambe. Capisce dove sarebbe arrivato il pallone e arriva prima di tutti. Il pallone è un Derby giallo. E’ più lento del tango, ma tra le gambe della tipa si muove veloce. Uno, due e si prepara al tiro: il difensore, un tipo lungo e veloce, non ci sta. Le aggancia un piede e da dietro la fa cadere. La ragazzina scivola per terra e da quello che vedo si sbuccia un ginocchio, niente di grave. La tizia è in gamba. Si rialza e chiede all’arbitro di cacciare il difensore che l’ha sgambettata. L’arbitro ci pensa un po’ e le dà ragione. A papera i rigori li puoi tirare in due modi: dalla campana del campo di basket di tacco, oppure da centrocampo, in tutti e due i casi senza portiere. Scelsero di tirare con il tacco e sbagliarono. Si accese un parapiglia. La partita diventò cattiva.  Alla fine la squadra della ragazza, con un giocatore in più, mise la tipetta in porta e portò avanti quello che fino allora era stato il portiere: un ragazzone grosso, più quadrato che tondo. Sicuramente era stato scelto perché tra lui e i pali non c’era spazio nel quale gli avversari potessero far passare il pallone. Ora gli chiedevano di rimanere, immobile, davanti alla porta avversaria. Lui contro il ragazzo con la polo gialla. Quelli con la ragazzina in porta volevano vincere. Gli altri, quelli che in porta avevano il ragazzo goffo con la polo gialla, erano , bravini e tenevano botta, ma la partita si era incattivita ed essere in cinque contro quattro aveva il suo vantaggio per la squadra della ragazzina. Ad un certo punto la squadra del portiere con la polo gialla si porta in attacco,  il loro centravanti, un tizio elegante, tecnico, veloce, tenta un tunnel ma perde la palla e lascia tanto spazio alla squadra della ragazzina. Il tipo quadrato, che prima giocava in porta, aveva eseguito gli ordini: era rimasto in avanti e si trova il Derby giallo tra i piedi a due metri dal gol. Quello goffo con la polo gialla è inchiodato alla porta. Nessuno dei due ha scelta. Quello quadrato deve tirare fortissimo, sperando che il portiere abbia paura e lasci passare il pallone. Quello con la polo gialla deve fare scudo con il proprio corpo. Tutti gli altri sembrano osservare in silenzio. Dentro di me ho il tempo di fare una scommessa: se il portiere para, il mio amico si presenta all’appuntamento, altrimenti no. Il ragazzo con la polo gialla sembra spacciato. Il ragazzo quadrato carica il tiro. E’ una guerra psicologica, penso. Più il tipo quadrato aspetta, più il ragazzo con il maglione giallo ha tempo per aver paura. Il ragazzo quadrato compie i suoi gesti come fosse un boia, carica il piede sinistro e tira con tutta la forza verso la porta. Il derby giallo si avvicina veloce al ragazzo con il maglione giallo, gli nasconde la faccia e il ragazzo per un attimo pare tutto giallo. Forse, goffo com’è, il ragazzo con il maglione giallo non fa in tempo a spostarsi, forse ha fermato il tempo e non ha avuto paura. Fatto sta che il pallone si deforma sul volto del ragazzo con il maglione giallo e rimbalza alto sulla traversa. Il ragazzo si accascia. L’arbitro ferma il tempo. Si forma un capannello. C’è un attimo di silenzio.

Ci vogliono sei compagni per sollevarlo e portarlo fuori dal campo. Sono fieri di lui. Lo portano come un trofeo. Lui è immobile, esanime. Fuori battono le mani. Tutti lo toccano, lo consolano, gli fanno festa. Lui resta in silenzio. Sono sicuro che si sta godendo quel momento. Mordo soddisfatto la mia ciriola gonfia di mortadella, voglio bene a quel ragazzo.

Tra il campo di papera e il norcino c’è un vini e olii. Con la ciriola e la mortadella ci sta bene un po’ di vino bianco, fresco, leggero. Ma le cose non cambiano e il tempo non passa. Provo e chiedo a Mario da bere. Mi porta una Zup, come, prima per errore e poi per scherzo, il mio amico chiama la Seven up.

Non s’è visto, mi dice Mario. Ma non è qui che avevate appuntamento. E poi c’è tempo!

Di Giugno, a Roma, può fare veramente caldo. Ho i capelli troppo lunghi, come al solito. A via Padre Reginaldo Giuliani c’è un barbiere, si chiama Carlo.

Entra Renato, ti aspettavo.

Da Carlo ascolto i discorsi dei barbieri tra loro e dei barbieri con i clienti. Sono affascinato, parlano di donne, macchine, vestiti. Di calcio no. Carlo è laziale, i suoi clienti romanisti. Qualche giocatore famoso una volta è stato da Carlo. Lo vedo dalle foto appese: si riconoscono D’Amico e Di Bartolomei. Ma Carlo non ne parla, neanche quando glielo chiedo. Non vuole perdere clienti per il calcio.

Mi guarda, interrogativo. Hai una brutta cera, mi dice.

Lo so, Carlo, me lo dicono tutti. Oggi devo avere davvero una brutta cera.

Non oggi, dice lui. Hai una brutta cera, questo è importante. Che ti frega che cera avevi ieri o avrai domani. Tu hai una brutta cera. Quello di ieri non eri tu e quello di domani non sarai tu. Tu hai una brutta cera.

Durante lo shampoo mi rilasso. Carlo ha un modo speciale di lavarti i capelli. Un vero e proprio massaggio. Mi gira intorno con le forbici, studia la giusta lunghezza. Mi passa il rasoio freddo sulle sfumature e quasi mi fa il solletico. Il rasoio che andava messo dentro una scatoletta illuminata di viola per via della storia dell’Aids è stato sostituito da lame usa e getta che si inseriscono su un attrezzo di plastica, finto avorio, magari prodotto in Cina, o a Napoli. Carlo mi spazzola premuroso, sistema due peli delle sopracciglie. Mi chiede di chiudere gli occhi e mi spruzza tutto intorno il profumo annacquato che fa tanto barbiere e che ti lascia quella bella sensazione di nuovo e pulito. Prima di invitarmi ad alzarmi dalla poltroncina mi posiziona lo specchio dietro la testa. Dallo specchio che ho davanti posso ammirare il lavoro perfetto anche sulla nuca. Tutto questo senza dire una parola.  Carlo è più taciturno del solito. Si vede che è immerso in qualche pensiero.

Alla fine faccio per pagare. Tu che c’entri? Il Renato a cui ho fatto i capelli non sei tu che ora devi pagare.  Bisogna essere coerenti con quello che si dice e io pensavo a quella frase sulla brutta cera di ieri e oggi. E’ per forza così: ma se è così, conta il momento che viviamo. Un momento prima e un momento dopo non siamo gli stessi del momento presente. Quello che ha fatto i capelli a un vecchio amico non era quello che ora chiederebbe di essere pagato ad un altro. Bisogna essere coerenti, deve essere per forza così.

 Sembrava distrutto da questa scoperta. Signori, non sto bene., disse Carlo ai due vecchietti in attesa. Io me ne vado, fidatevi dei miei ragazzi, ci penseranno loro. Oggi offro io. Poi si rivolse ai ragazzi e disse: dopo questi due chiudete, ci devo pensare.

Uscimmo insieme dal negozio. Fuori, proprio di fronte al locale di Carlo, i ragazzi che okkupavano stavano facendo un gran rumore con il megafono e alcuni tamburi usciti da chissadove. Urlavano slogan ma non si capiva nulla. Ogni tanto si percepiva che erano arrabbiati con la Merkel, l’euro, Monti e la Fornero… ma non si capiva esattamente cosa stessero urlando. Però gli slogan avevano una ritmica piacevole. Si vede che studiano il greco antico, disse Carlo sovrappensiero.

Senti, Carlo, ormai è quasi ora di pranzo. Possiamo andare a mangiarci un boccone da Giovanni. Carlo mi guardava sconsolato. Aveva una maglietta della Champion chiazzata ed unta. Erano gli schizzi degli shampi, le goccioline dei profumi. Carlo non lavora con il camice o la divisa. Diceva che lui era abituato così e doveva distinguersi dai suoi lavoranti, costretti alla livrea. Sì, forse è meglio, disse Carlo. Mangiamo qualcosa, perché a me questa storia che cambiamo continuamente non piace.

Senti, feci per consolarlo, è da questa mattina che penso all’appuntamento e tutti mi fanno strani discorsi su quello che siamo stati e quello che saremo. Un po’ quello che dici è vero, quello che siamo stati non è quello che siamo. In un certo senso siamo una persona diversa rispetto a quella che eravamo venti anni fa. Le nostre cellule si sono sostituite quasi tutte, ma non trovi che oggi siamo quello che abbiamo deciso di essere ieri?

E chi me lo garantisce? Disse Carlo.

Deve rimanere qualcosa dentro di noi … per sempre. Una specie di spina dorsale che percorre il tempo….

Non ti capisco, disse Carlo, che però pensava ai fatti suoi.

Provai ad insistere: ora andiamo a pranzo, tu mangerai, ma la decisione di mangiare è stata presa dal Carlo che non è più il Carlo che mangerà. Tuttavia il Carlo che mangerà lo farà perché c’è un Carlo che lo ha deciso.

Decidemmo di andare da Giovanni, a pochi passi dalla bottega di Carlo e dal Socrate okkupato.

Giovanni è un uomo enorme. Gigantesco. Ha sfamato generazioni di studenti. I suoi piatti sono semplici, ma hanno sapore. Entrate, vi aspettavo, ci accolse Giovanni. Vi ho lasciato il tavolo d’angolo sulla vetrata. Quella che lui chiama vetrata è un muro di vetro opaco che affaccia sulla strada, ma dal quale non si vede assolutamente nulla. Se filtra un po’ di chiaro da dentro puoi percepire che c’è il sole.

Carlo prese una gricia. Io direttamente un abbacchio a scottadito con un po’ di patate al forno, senza passare per il primo.

Mentre aspettate vi offro un frittino, disse Giovanni. E si presentò con cinque o sei supplì, due crocchette, un po’ di mozzarella in carrozza e del pane fritto dorato. Non bevemmo vino, perché Giovanni ha solo il vino della casa e non è proprio un vino da premio. Carlo si buttò sulla gricia, io con l’abbacchio fui costretto ad usare maggior circospezione. In due consumammo, a velocità diverse, un pasto completo.  L’antipastino, però, ci aveva già saziato. Per un po’ mangiammo in silenzio cercando di non cedere all’altro la soddisfazione di essere l’unico a completare il pranzo.

Con che olio friggi?, chiese Carlo a Giovanni non appena l’oste ci tornà a tiro.

Olio di semi di soia, rispose Giovanni.

Che schifo!, disse Carlo.

Dovresti friggere con olio di mais, al limite con olio di oliva, costa meno dell’extra vergine ma è meglio dell’olio di soia, sentenziò Carlo. C’è poi una marca di olio di oliva: Olivello, che è particolarmente adatta per i fritti.

Si misero a discutere per almeno mezz’ora su tutti i tipi di olio. Carlo è un cultore della spesa e dei supermercati. Sa citarti le marche più strampalate. Per lui l’avvento dell’hard discount è stata una rivelazione.

Carlo, raccontagli di quando invitavi tutti a casa a bare l’amaro del Todis. Lo sfidai.

Non era l’amaro del Todis, ma L’amaro dell’antico Abruzzo, che vendevano al Todis. Precisò.

Giovanni si allontanò e tornò con una bottiglia de L’amaro dell’antico Abruzzo. Lo stappò e riempì a metà il mio bicchiere da vino che era rimasto sul tavolo nonostante decidemmo di non bere vino. Giovanni non bada troppo all’etichetta.  Carlo rifiutò sdegnosamente.

 Leggi l’etichetta, cretino! fece a Giovanni. Giovanni rispose che non aveva gli occhiali e che anzi, dato che era cretino non sapeva leggere. Mettiti seduto, idiota, gli fece Carlo. Prese la bottiglia e lesse: imbottigliato negli stabilimenti di Sirmione, biesse.

Che è biesse?, fece Giovanni.

Biesse è la sigla della provincia di Brescia, analfabeta!

Embè? , sbottò l’omone, che intanto si era sbottonato la camicia fino a sotto lo sterno.

Brescia! Brescia!, esplose Carlo. Si chiama L’amaro dell’antico Abruzzo e lo fanno a Brescia! La conosci la geografia? Hai studiato l’Italia, quella a forma di stivale? Brescia sta al nord! In Lombardia. L’Abruzzo sta al centro, quasi al sud!

 Che vuol dire quasi? , interrogò Giovanni. O l’Abruzzo sta al sud o sta al centro! Mi sa che sei tu che non conosci la geografia. Carlo divenne una bestia, si alzò e approfittando del fatto che Giovanni era ancora seduto, lo prese per il collo della divisa da cuoco e lo tirò verso l’alto, senza che questi, però,  si spostasse di un millimetro. In compenso i due bottoni che erano riamasti a guardia del ventre gonfio di Giovanni saltarono e la divisa si aprì a metà. Giovanni sembrava un lottatore di Sumo mezzo addormentato. Per un po’ stette divertito e pacioso a farsi strapazzare da Carlo. Quello non voleva colpirlo e fargli male. Allora lo tirava per lo orecchie, gli storceva il naso, gli tirava le guance, intimandogli di chiedergli scusa, perché lui la geografia la conosceva benissimo. Poi l’oste si alzò lentamente. Lo prese per la cinta dei pantaloni. Lo sollevò. Aprì la porta e lo buttò fuori. Manco, ha bevuto!, mi fece. E’ strano di suo, risposi. Fanno trenta euro, disse Giovanni. Ma se non me lo riporti più il pranzo è pagato.

Senti, Carlo, gli dissi, ascolta bene: quell’amaro mi andava proprio e per colpa tua non l’ho bevuto. Adesso ho il problema di riposarmi perché devo andare all’appuntamento, ma sono stanco, Nerone imperversa e non ci posso andare in queste condizioni.

Vieni a casa mia, disse conciliante e aggiunse con un po’ di malizia, puoi riposare in pace … fino a che non è ora di riaprire il negozio. Io non sono più quello che ha deciso di non farsi pagare per il lavoro fatto. E poi che vuol dire che ero io che lavoravo e poi non ero più io quando mi pagavano? Sarò io quello che deve mangiare questa sera e allora è meglio che paghino, a chi sia, sia. Alle tre e mezza riapro tutto e mi riprendo i soldi con gli interessi. A proposito, tu mi hai pagato?

No, ma ti ho pagato il pranzo, siamo pari. Solo che per un po’ e’ meglio che non ti fai rivedere da Giovanni.

E chi ci torna più!, sentenziò Carlo. Almeno finché non cambia amaro, dissi io, o tu non studi la geografia, aggiunsi maligno.

E allora tu non vieni a casa mia a riposarti, disse lui. Non conosco la geografia e ho perso la strada. Ciao.

Mi piantò lì. Evidentemente questa storia della geografia era molto importante per lui. Alle due di pomeriggio sulla Circonvallazione Ostiense, a Roma, con Nerone, può fare veramente caldo.

Poco prima dell’asiletto della Garbatella, salendo la salita, c’è un parco. Alle due di pomeriggio, con Nerone, nel parco non c’è nessuno. Con difficoltà trovai una panchina che non fosse devastata dai vandali. Mi misi come cuscino la camicia bagnata di sudore, ormai asciutta, che mi portavo dietro da tutto il giorno, mi sdraiai e chiusi gli occhi. Sognai il mio appuntamento, mi preparai nel sonno quello che avrei dovuto dire al mio amico.

Un’ombra oscurò il sole. Me ne accorsi perché mi stavo svegliando, ma non volevo aprire gli occhi. Però vidi che il sole era coperto da qualcosa che mi faceva ombra. Sentii una mano scuotermi la spalla. Signore, mi disse una voce femminile, sta bene? Tutto a posto! Mi sentii in imbarazzo, quasi fossi nudo su una panchina pubblica a dormire come un barbone. Saltai sull’attenti e mi sembrò di svenire per il soprassalto e per un evidente calo di pressione. Barcollai. La donna mi sostenne per un braccio.

 Non mi riconosci, mi disse? No, risposi. Già, ammise la donna, sono passati tanti anni. Però il mondo è strano.

 Mi dica signora, perché è strano?

 Questa mattina ti ho cercato per tutti i padiglioni del San Giovanni. Come sarebbe?, le risposi sorpreso. Sarebbe che il tuo amico, quello con cui hai l’appuntamento, mi ha detto che eri ricoverato in fin di vita. Volevo salutarti prima che… Ma che scherzo è questo, signora. Non si prenda gioco di me!

Ah, sarei io prendermi gioco di te?, urlò la donna. Tu e il tuo amico: bello scherzo che mi combinate. Prima mi spedite al San Giovanni e poi ti fai trovare qui, come un barbone e fai anche finta di non riconoscermi!

Senta, signora, implorai. Lei è una donna bellissima, ha degli occhi che rapiscono, di un blu sconvolgente. E’ stata molto gentile a prendersi cura di un uomo che dormiva sulla panchina. Sto benone. Però io non so di cosa stia parlando! La prego di non insistere. Oggi per me è una giornata piuttosto strana. Una donna come lei non dovrebbe prendersi gioco di un uomo come me.

Ah, no? non sai di cosa parlo? Fece lei. Non è forse vero che tu hai un appuntamento con il tuo amico. Sì, è vero, le risposi stupito. E’ lui che ha insistito perché io andassi al San Giovanni. Pensa che oggi mi ha accompagnato anche mia madre, una donna anziana, che voleva salutarti. Ha girato con questo caldo tutta la mattina e ora ti vedo qui, vivo e vegeto. Mi hai deluso! Se proprio lo vuoi sapere all’Ospedale hanno detto che eri morto. Abbiamo finito di piangere da pochi minuti. Ti volevamo bene!

Signora, la prego, deve esserci un errore. Non può essere come dice lei. Eppoi lo vede? Sono vivo e la persona che lei sta cercando è morta.

No, Renato, mi disse la donna. Sei tu ormai ad essere morto. Io e mamma abbiamo già pianto per te. Mica pretenderai che si pianga due volte per la tua morte? Quando morirai sul serio fammi la cortesia di non avvertirmi. Il presente vale una volta sola e nel mio presente di questa mattina tu sei morto. Nel presente di domani tu starai dentro una tomba da un bel pezzo e non potrò più piangere per te. Ora vattene, perché non è bello che io stia a parlare con un morto.

Giocati il 47, dissi beffardo. Ma dentro mi sentivo morto sul serio.

Lasciai la camicia sulla panchina, tante volte un barbone vero ne avesse avuto bisogno. Presi il 716 e mi gustai il percorso. Il terminal Ostiense, ultimo sfregio alla città della mia giovinezza, la piramide Cestia, che i turisti, tutti ignoranti, guardano con diffidenza, quasi fosse un’imitazione cinese di una Ferrari. La piramide Cestia e la globalizzazione, ci si potrebbe scrivere un bell’articolo! Poi il quartiere Testaccio, la bocca della verità, il tempio di Giove e di Vesta, prima della grande macchina da scrivere di marmo a cui sono affezionato lo stesso, quasi fosse un monumento vero. Prese a farmi male lo stomaco. Cominciò a farmi male nel vedere i giapponesi in fila disciplinata davanti a Santa Maria in Cosmedin. Non stavano in fila per il pavimento cosmatesco, per la chiesa, neanche per la curiosità di dare uno sguardo all’arredo greco-melchita, aspettavano il loro turno per farsi una foto con la mano dentro la bocca della verità. Si passavano le macchinette fotografiche e si dirigevano spavaldi a provare il loro coraggio. Stavano al centro della storia, ignoranti del significato di ogni pietra, profanatori del tempo sacro di Roma con i loro presenti insignificanti. Ansiosi solo che di raccontare questo presente, una volta che fosse diventato passato. Scesi dall’autobus. Passai avanti a tutti i giapponesi in fila. Pregai un giapponese di immortalarmi. Mi rivolsi verso la Bocca della verità: mi calai la zip dei pantaloni e ci urinai dentro! Ora infilateci le vostre mani gialle! Alle spalle mi bruciava il calore di centinaia di flash impazziti. Nessuno mi fermò, nessuno disse nulla.

Prima di arrivare all’appuntamento volevo controllare una cosa. Superato il Collegio Romano, m’ infilai dal retro nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva. Amavo quell’ingresso, sconosciuto ai turisti. Dopo pochi passi ti trovi dietro l’altare, ma soprattutto dietro la Statua di Cristo Risorto, o Cristo Portacroce, l’unica cosa anonima uscita dalle mani di Michelangelo. Tanto anonima a guardare quel busto del Cristo in torsione non lo sarebbe neanche. Ma proprio non ha l’anima di un’opera di Michelangelo. Volevo controllare questo: se quel Cristo che guarda da una parte, si torce dall’altra, ha i piedi e la croce per dritto è un Cristo particolare, oppure se lo scalpello del maestro lo abbia fatto tanto per farlo e per riscuotere i soldi della commessa. Un Cristo fatto da Michelangelo come se un cinese avesse copiato una statua di Michelangelo. Michelangelo e la globalizzazione, altro bell’articolo! Non mi rassegno, Michelangelo non può aver fatto una cosa tanto per farla. Deve esserci un particolare, una forma, un colpo che abbia un significato. Ogni volta che passo davanti a Santa Maria sopra Minerva entro per controllare. Mi capita quasi tutti i giorni.

Davanti al Cristo trovai un uomo. Robusto, della mia età. Se ne stava seduto davanti alla statua ma la guardava di traverso. Aveva un naso pronunciato e irregolare. Il volto era girato verso l’altare ma i suoi occhi intensi e furbi fissavano il Cristo di Michelangelo. Lui e il Cristo si guardavano di sguincio. L’uno guardava a destra, l’altro a sinistra. Ma si osservavano. Doveva aver freddo, nonostante Nerone. Su una polo gialla indossava una giacca di lana a pezze quadrate blu e nere. Nel taschino aveva un paio di occhiali RayBan. Forse fatti in Cina, forse originali.

Eccoti finalmente, mi disse. Sembri contento di vedermi, risposi. In mancanza di meglio!, osservò lui con ironia.

Deglutii, era giunta l’ora. Hai avuto parecchio da fare in questi ultimi due anni?, mi chiese senza girare troppo intorno alla questione dell’appuntamento. Lo sai, no? Ho una vita un po’ esagerata!

Mah… non credo che tu l’abbia più intensa di chi ha fatto questa statua. Sai, Michelangelo quando accettò questa commissione era vincolato da un impegno in esclusiva con la famiglia Della Rovere per la tomba di Giulio II.  Ci mise quaranta anni per completare la tomba di Giulio II. Un giorno l’abbiamo vista insieme a San Pietro in Vincoli, ricordi?

Sì, certo che ricordo. Ora che mi ci fai pensare, ricordo benissimo che ero con te. Ma all’epoca di arte non me ne fregava nulla. Mi sembrava un blocco di marmo, meno lucido della pietà in San Pietro. Gli avevamo fatto le foto e io ruppi la macchina fotografica.

Sei un babbeo. Sei sempre stato un babbeo. Michelangelo ci mise quaranta anni e tu stai a pensare a quanto è lucido? Lo sai almeno con che attrezzo lucidava il marmo? La macchina l’hai riparata a tue spese o mi hai chiesto dei soldi? Non ricordo, ma mi pare che fosse una Fujica, il modello del 1980. Ti avevo detto che la Fujica non era adatta. Era meglio la Nikon.

No, non mi ricordo altro, ma non sono venuto per questo, tagliai corto mentre mi avvicinavo. Non ho molto tempo.

Questa storia del tempo, è da questa mattina che ne parli e ogni minuto cambi idea. Secondo te Michelangelo aveva tempo per fare altre cose in quei quaranta anni in cui avrebbe dovuto pensare solo ai Della Rovere? No, ma fece altro. Per esempio questa statua. Con i Della Rovere non si scherzava mica. Eppure Michelangelo trovò il tempo per questo Cristo. Tu cerchi una particolarità in questa statua, ci passi ogni mattina e non la trovi. Te la do io la particolarità. Michelangelo scolpì questa statua mentre era impegnato in esclusiva con una delle famiglie più potenti di Roma, quindi del mondo.

Non mi basta!

Ah, no? Michelangelo era un genio. Ma non sempre il genio vince la sua sfida. Guarda me! Quando quasi la statua era finita emerse una venatura nera, proprio nella zona del volto del Cristo. Bisogna cominciare tutto daccapo!

Ma come fai a sapere tutte queste cose?, chiesi incredulo.

Un po’ la settimana enigmistica, un po’ i documentari in televisione. Mica guardo il Grande Fratello, io. Stai a sentire, idiota: quello sfacciato aveva stipulato un contratto anche per questa statua, ma invece di consegnarla nel  1518, spedì a Roma una nuova copia, fatta con il marmo nuovo,  nel 1520. Neanche si degnò di chiedere scusa e di mandarla bella e pronta. Chiese ad un babbeo che lavorava con lui, un tale Pietro, di finirla in loco. Questo Pietro ne combinava di tutti i colori. Metello Vari, uno di quelli che cacciava i soldi, s’incazzo’.

SSSSS, dissi io. Siamo in Chiesa!

Ascolta, cretino:  Michelangelo prima sostituì il nostro amico Pietro, poi incaricò un altro di seguire i lavori. Poi si offrì di metterci mano. Alla fine, quelli che tiravano fuori gli scudi, gli dissero: “lascia perdere, dacci sia la statua vecchia che quella nuova, così come è venuta e stiamo pace”. Tra l’altro, tu che conosci la geografia dovresti sapere che la vecchia statua è a Bassano Romano.

A me succedono cose strane da questa mattina. Nerone a momenti mi uccide. Sono stanco. Non sono venuto qui per parlare di Michelangelo. Vorrei chiarire alcune cose.

Non si può procrastinare?

Che intendi?

Io ho già chiarito con te tutto quello che c’era da chiarire. A scuola volevamo fermare il tempo dell’orologio. Vinceva chi lo fermava al secondo esatto. Io con il tempo non me la sono mai cavata troppo bene e prima o poi il tempo scade per tutti, oggi a me, domani a te.

Mi guardava di sguincio con fare ironico. Poi proseguì. Se è necessario ne parliamo, ma mi pare che sia tutto chiaro. La statua di Michelangelo, nonostante siano passati cinque secoli, nonostante Michelangelo non avesse avuto il tempo di scolpirla in maniera degna, nonostante l’incazzatura di Metello, è ancora qui. Ma non conta il pezzo di marmo. Tu ci passi ogni mattina e ogni mattina ti dice una cosa diversa. Ogni mattina che ci passi parli con Michelangelo e fai i conti con la sua storia. Ogni mattina fai i conti con Michelangelo, ma quello, da tempo è cibo per i vermi.

Quindi il passato di Michelangelo e presente al mio presente?

Senti, se tu ti sei fumato il cervello con questa storia del passato e del presente non è un problema mio. Sei tu che hai studiato filosofia, veditela come ti pare, ma mi pare che in una giornata hai cambiato idea tre o quattro volte. Mi sa che non è ancora tempo per te di capire cosa sia il tempo. A me interessa che Michelangelo sia esistito, ringrazio Dio di avermelo fatto incontrare e ringrazio Michelangelo di aver trovato il tempo di scolpirla. Ci passi davanti ogni giorno, cerchi di scoprirne un dettaglio, un particolare, un segno. Tutto questo è possibile perché Michelangelo ha trovato il tempo di lavorare questo marmo. Basta. Non mi chiedo altro. Andiamo a cena. Avrei voglia di un risotto alla crema di scampi. Qui vicino, a via della Vite, c’è un ristorante che cucina il pesce che pesca un mio amico a Santa Severa.

A Santa Severa pescano scampi?                                                                                                                       

Non lo so se a Santa Severa pescano scampi, ma se il mio amico porta il pesce a questo ristorante vuol dire che il ristorante ha un buon pesce. Ma tu con gli scampi che vino ci bevi?

Un vino bianco, secco!

Si, ma quale? Senti, è ancora presto per cena. Andiamo in enoteca, facciamo finta che dobbiamo scegliere una bottiglia e facciamoci consigliare. Ci divertiamo un po’, poi, quando saremo al ristorante già sappiamo cosa dovremo mangiare.

L’enoteca Il Parlamento è una buona enoteca ed è sulla strada, tra Santa Maria sopra Minerva e Via della Vite. Profuma di vino buono, di bottiglie serie, di gusto, di lusso, certo, ma di un lusso non volgare, sobrio. Il proprietario è un tipo alla moda, elegante. Più gentiluomo di campagna che fichetto da degustazioni al buio. Il mio amico entrò e chiese un Capsula viola, lasciando inorridire   l’esperto. Gli diede tutto il tempo. Era un bluff studiato. Ah, no? Perché? Dice che è dozzinale? Eppure mi pare buono quel vino… non allappa! E cosa mi consiglia per un risotto di scampi?  Un verdicchio dei Castelli di Iesi?

Di bene in meglio, l’enologo, sommellier o qualunque qualifica avesse, cominciò a sentirsi punto sul vivo e si mise ad illustrare un eccellente bianco dei Castelli, Il Villa Simone, che a suo dire era prodotto secondo le sacre leggi dell’enologia. Non dobbiamo pensare che perché è dei Castelli romani valga poco. Concluse il suo breve apologo della bottiglia che brandiva con una mano come fosse la spada appena estratta dalla roccia.

Non credo che vada bene, disse il mio amico. Come si chiama lei? Victor Ugo, rispose l’uomo. Senta Victor Ugo, lei non mi pare un babbeo, che non sa di cosa si stia parlando, cosa ne pensa di un supercapsula con fermentazione assistita? E si mise a guardarlo di traverso, con aria interrogativa e saccente.

L’uomo era un cinquantenne, molto serio, orgoglioso della sua scienza e impegnato a soddisfare un cliente ignorante. Per questo, forse, l’uomo non era neanche sfiorato dall’idea di essere sfottuto da un coetaneo che se ne girava con un giacchetto di lana a quadratoni  blu e neri mentre sulla Capitale imperversava Nerone. Mi coglie impreparato, rispose. Intende forse dire fermentazione controllata? I vini che le propongo sono tutti a fermentazione controllata.

No, io dico a fermentazione assistita e imbottigliati con la  supercapsula. Non sottovaluti la supercapsula. Lei continua a propormi questo Villa Simone di Frascati, disse il mio amico, ma non vorrei che lo facesse perché ha guadagni più alti. Le trecciole, Cantina le Quinte, sono un vino onesto, con supercapsula a fermentazione assistita e costano un terzo. Ma lei non ce l’ha!

Poi si rivolse a me e tronfio mi invitò ad uscire, che questi neanche sanno cos’è una supercapsula!

Naturalmente nel ristorante di Via della Vite ordinammo il risotto agli scampi e bevemmo il Villa Simone, senza supercapsula. Fu una cena silenziosa. Mangiammo solo il risotto, ma  prima consumammo il rito degli antipasti. Il mio amico si informò sui prezzi. Capo, come ti chiami? Disse al cameriere. Mario, rispose l’ometto tutto nervi che era stato assegnato al nostro tavolo dal momento in cui eravamo entrati al ristorante. Quanto costa l’antipasto a buffet? Dieci euro, signore! E prendo quello che voglio? Certo. Posso prendere più volte? Con moderazione, rispose Mario un po’ imbarazzato. Facciamo così, disse il mio amico. Io mi alzo due sole volte e prendo tutto quello che mi entra nel piatto.

 Questi sarebbero due antipasti, signore.

 Il mio amico, che prima si era procurato dal sottoscritto cinque euro,  fece scivolare la banconota in mano a Mario, strinse l’occhio e sentenziò: un antipasto abbondante!

Nel primo piatto riuscì ad infilare tutti i frutti di mare possibili. Arrivò ad impilare le cozze una ad una perché occupassero meno spazio. Le stese su un letto di filetti di tonno e salmone. Sgusciò al banco tre ostriche ed evitò di occupare spazio con il  guscio. Era presto e il ristorante era quasi vuoto. Ma avrebbe fatto lo stesso anche in presenza di una folla di visitatori. Nel secondo viaggio, controllato a vista da Mario, si concentrò su gamberi, scampi e scampetti. Il suo piatto sembrava una piramide, ogni mattoncino rosso, rosa, arancione al suo posto.  Rimanemmo un attimo in silenzio. Il mio amico si attorcigliava intorno al dito un fronzolo della tovaglia, lo faceva per gioco, non per nervosismo.  Mi sorpresi a fare lo stesso.

Abbiamo procrastinato abbastanza, è ora!, mi disse consumando un ultimo boccone di risotto che si era conservato per il lieto fine. Si alzò, come per allontanarsi un attimo, si voltò e mi sussurrò con un sorriso complice, tu intanto chiedi il conto!

Mario, il conto, urlai. Mario arrivò solerte, mi porse il conto in un elegante astuccio di pelle su un vassoio d’argento. C’erano anche una caramella ed una salviettina profumata. Erano trenta euro in tutto. Un antipasto abbondante, un risotto agli scampi, un coperto. Era stata anche annotata una bottiglia di Villa Simone dal costo di venti euro, offerta dalla casa, a buon rendere!, c’era scritto a penna con una scrittura a scatti.