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Botero e il trattore

Sclop, clop, bruum…clop… brumm bruuuum bruuummm. Il grosso trattore, un Landini 7830 DT, con un ultimo colpo poderoso smise di borbottare e cominciò a macinare giri. Gonfiò il petto, liberò sul campo i suoi cavalli e prese a pettinare la collina. Dalla casa a valle appariva come un puntino quando era in cima, un gigante quando si avvicinava.
La donna, quando si accorgeva del rumore, si affacciava alla finestra e salutava l’uomo che cavalcava il gigante. Poi riprendeva a leggere. Ogni tanto alzava lo sguardo, fino a che non scompariva lontano. Poi lo avvertiva, vedeva nuovamente prendere forma, ingrandirsi, e allora si alzava, si affacciava alla finestra. Salutava. Andò avanti e indietro, su e giù per un bel pezzo.

Finché il gigante crollò esausto appena fuori dal suo capanno.
Più tardi, forse domani, l’uomo lo avrebbe lavato, sistemato e riposto dentro. Fino al sabato successivo.

E’ una bella rogna quando si rompe il trattore il sabato pomeriggio, disse soddisfatto rientrando a casa.
Togliti le scarpe, disse lei.
Ho fatto la doccia in giardino. L’impianto solare funziona. D’estate non devi preoccuparti. Torno pulito come un neonato.

Senti, disse lei. Ma come è possibile che questo Cristo sia stato deposto dalla croce? Insomma, non ha il fisico per starsene appeso sulla croce. Come hanno fatto a tirarlo giù? E’ enorme. Ci penso da ore. Un Cristo così non può essere messo in croce. Soprattutto non puoi tirarlo giù quando è morto sulla croce.


Già, enorme. Allora, amore. Senti cosa è successo. Ho finito il gasolio. Proprio lassù, in cima alla collina. Faceva veramente caldo. Allora sono sceso a riempire una tanica. Ma tu non mi hai visto? Insomma, risalgo convinto di poter far ripartire il trattore. Butto dentro una ventina di litri. Ma niente. Quello borbotta e non riparte. Provo due, tre volte. Ancora niente. Gli ho dato anche un calcio. Guarda qui, mi si è gonfiato il ginocchio per il contraccolpo.

Telefono ai meccanici del paese. Ti ricordi? Ho sempre detto che è utile avere in tasca il telefono, anche quando stai sul trattore e non sentiresti neanche la suoneria. Insomma, nessuno risponde. E’ sabato pomeriggio, mi dico. Non mi aiuterà nessuno. Avrei dovuto lasciare il trattore lassù e scendere a piedi. E poi? Non lascio lassù tutti quei soldi.

Già, fece lei. Ma no, dai guarda quell’angelo così tozzo con le alette piccole. Non può volare.

Già, non può volare. Disse lui. Allora ho una trovata. Prendo il telefono e apro YouTube. Per fortuna là in cima alla collina c’è campo. Scrivo proprio vicino alla lentina della ricerca: Trattore senza gasolio non riparte. Sarà stato stupido, ma non mi è venuto in mente di meglio. E che succede? Succede che trovo una spiegazione. Come si chiamano questi video? Ecco, tutorial. Trovo un tutorial. Insomma, il tipo fa ripartire un trattore. Non è proprio un Landini 7830 DT come il mio. Però capisco. C’è un bullone, in basso. Prima che il gasolio entri nel motore. Lo svito. Me lo metto in tasca. Ah, prima controllo che non ci siano i buchi. Nella tasca. Dico, un buco nella tasca è un bel problema. Si fa presto a perdere il bullone e allora addio! Salgo sul trattore e provo ad avviare. Clop Clop. Però dal buco, sì dal buco dove prima c’era il bullone, esce un bello schizzo di gasolio. Almeno credo. Sì, deve essere stato per forza gasolio. Allora provo ancora e il motore stenta un po’, ma alla fine. Miracolo! Parte. Mi sbrigo a spegnere perché a quel punto da quel maledetto buco esce un bello schizzo di gasolio. Un fiume di gasolio. Ad ogni giro un getto. Riavvito, serro ben bene e lavoro tutto il pomeriggio. Eh, già mi hai visto. Mi salutavi anche.
Allora, vediamo questo quadro. Ah, ma è quello colombiano. Botero!

Già fece lei.

Lo sai perché credo che abbia fatto Gesù così grande? Credo che volesse riempirlo di colore. Volesse dire: ehi voi! Questo è Gesù! Credo che c’entri qualcosa il fatto che neanche entri nella sepoltura. Non può entrarci, è più grosso. Ma poi dietro, vedi, ci sono palazzi. Che strano. Sembra una scena di oggi. Quei personaggi, somigliano a tutti. Potrebbero essere ognuno e nessuno. Così goffi. Colorati.
Però si vede che lo conosce bene.

Chi? chiese lei passandogli una birra gelata.

Cristo! Si vede che Botero conosce Cristo. Lo dipinge per come lo conosce. Se conosci qualcosa poi lo racconti bene. Insomma, non è uno di quei cristi lontani che devi stringere gli occhi per vederli. Sta qui davanti. Te lo mette davanti, grande e grosso. Colorato. Ecco il mio Cristo, ti dice!

Dici, amore?

E’ come quel tipo del tutorial.

Botero?

Si, Botero.

Bevi piano, amore. E’ ghiacciata e tu sei sudato.

Quello ha parlato in maniera molto chiara del trattore. Si vede che conosceva la materia. Ma mica ha fatto un trattato di meccanica. Ha fatto ripartire il suo trattore. Ha detto: ecco il mio trattore. Se resto a secco lo faccio ripartire così. Mica era il mio. Era un altro tipo. Più grosso, con un impianto diverso. Però ho capito. E alla fine è ripartito anche il mio trattore.

Amore mio. Quanto sei stupido

Come ho perso l’occhio

Gli scatoloni erano pronti. Non avevo altro da fare e me ne stavo a guardare fuori dalla finestra. Prima o poi sarebbe arrivato il furgone dei trasporti. Avevo lasciato fuori la macchina del caffè, carica. Se ne stava lì, carica, sul gas, aperto, ma spento. C’erano anche una confezione di bicchierini di carta, tre o quattro cucchiaini e la scatola di caffè Eridania. Quasi vuota. Casomai i ragazzi avessero voluto un sorso di caffè caldo ci avrei messo due minuti a servirlo.

Sono al quarto trasloco in tre anni. So come vanno queste. Meglio far lavorare bene i ragazzi. Un buon caffè aiuta ad avere un clima sereno. Perché lavorare guardandosi di traverso? No, dico: è meglio starsene sereni e fare le cose per bene. Un caffè a volte aiuta.
Comunque sto lì e aspetto. Lo so che quando arriveranno i ragazzi si farà tutto in fretta e non ci sarà tempo per un’ultima ispezione.

Il proprietario di casa non potrà venire. Mi ha chiesto di lasciare le chiavi sul tavolo e chiudere la porta. Non è mai andata così. Se dimentico qualcosa non potrò rientrare a prenderla. Prima di uscire e chiudermi la porta alle spalle con le chiavi lasciate sul tavolo decido di fare un ultimo giro per le stanze. Sono certo che dimenticherò qualcosa.
Non si vede ancora nessuno.
Allora mi viene in mente di controllare se il pacchetto che ho messo nella tasca del giaccone è a posto.
Lo prendo con cura. Lo guardo. Sembra integro. Meglio controllare. Strappo lo scotch che tiene insieme la plastica con le bollicine, sfoglio con cura la carta velina.
Sì, è tutto a posto.
Quando devo muovermi la prima cosa che faccio è incartare con cura l’occhio.
Non lo metto nelle scatole, neanche in quella con su scritto, fragile, maneggiare con cura.
Non si sa mai. Magari i ragazzi sono nervosi e sbattono la scatola. Può succedere un incidente. Non rischio certo.
Ci tengo all’occhio. Lo porto con me da quando l’ho trovato. Avrò avuto dieci o dodici anni.
Ce ne stavamo a giocare a pallone al prato. Ora ci sono sopra palazzi di otto o nove piani se consideriamo anche le soffitte. Allora no. C’era questo immenso prato. Proprio alle spalle di via Ostiense. Uscendo da Roma, dopo la Piramide. Prima di San Paolo. Adesso c’è il ponte Spizzichino. Prima c’era un prato.
Insomma, ce ne stiamo a giocare a pallone un pomeriggio intero. Eravamo sfiniti. Mario, il mio amico di allora, mi dice. Ci sono troppi sassi in questo campo. Togliamone un po’. Lo disse perché la sua squadra stava perdendo trentadue a otto. Insomma, dopo quattro ore che giochi e perdi trentadue a otto ti attacchi a tutto. Fatto sta che ci mettiamo a togliere i sassi dal campo. Ci dicevano di non alzare le pietre grandi perché sotto c’erano le vipere. Sì, allora le vipere le trovavi anche in città. Ma io alzavo le pietre proprio per quello. Non avevo mai visto una vipera.
Mi ero stancato di raccogliere sassi. Allora vedo una bella pietra grossa. Non gigantesca, ma più grande delle altre. Prendo un bastone e faccio leva. Volevo vedere una vipera, ma insomma anche a dieci o dodici anni non ero proprio così scemo da alzare la pietra con le mani. Alzo il sasso e come sempre non trovo la vipera. Faccio spallucce. Questa storia della vipera mi pare strana. Comunque sposto il grande sasso, ma non vi ma di fare lo sforzo di portarlo fuori dal campo.

Ero stanco anche io, mica soltanto Mario. Chi vince si stanca meno, ma si stanca.

Mi metto a smuovere la terra e vedo un po’ di pezzi bianchi. Non erano sassi. Erano frammenti di qualcosa. Vabbè, questo lo dico oggi. Allora mi sembravano cose strane. Comincio ad osservare questi pezzi di qualcosa. Scavo con il bastone che mi era servito a spostare la pietra. Non cercavo nulla di preciso. Però mi sembravano strani quei pezzi bianchi sotto al sasso. Scava qui, scava lì esce fuori questo pezzo più grosso degli altri. Era sporco, ma si vedeva che era lavorato. Non era una cosa naturale. Ci sputo sopra e comincio a pulirlo con le mani. Poi me lo strofino sui pantaloni. Tanto erano pantaloni che, si sa, mamma avrebbe messo in lavatrice. Per fortuna le mamme non lavavano più a mano. Buttavano tutto in lavatrice e tu potevi sporcarti senza prendercele.

Insomma, sputa e strofina esce fuori quest’occhio. Non un occhio a grandezza naturale. Più grande. Bello, perfetto. Lavorato nei dettagli. Bello. Come lo definirei? Bello, semplicemente bello.
Oh, ecco i ragazzi. Volete un caffè?
No, lo abbiamo appena preso al bar. Fa il capo. Un omone gigantesco, non proprio un ragazzo. Tanto che indossa un camice blu. Oggi chi è che fa un lavoro del genere con un camice blu?
Ok. Dico io. Se ci ripensate basta accendere il gas. La macchinetta è del proprietario di casa. Resta qui.
Va bene, grazie. Sono solo questi gli scatoloni? Mi chiede l’uomo con il camice blu. Ci metteremo pochi minuti allora.
Ah, ecco il mio occhio. Mentre loro lavorano me lo guardo. E’ bello. L’ho sempre portato con me. Ogni volta che sono triste o che le cose non vanno come devono andare lo prendo in mano, lo pulisco un po’ dalla polvere e lo guardo. Una volta l’ho fatto vedere ad un professore di archeologia.
Dove lo hai trovato mi dice?
Ho fatto il vago. Comunque è di età imperiale, mi fa lui. Non vale molto, ma dovresti consegnarlo alla sovrintendenza e spiegare bene dove lo hai trovato.
Ah, sì lo farò. Grazie.
Col cavolo che l’ho fatto!
Poi un giorno mi sono trasferito a Firenze per lavoro. Ho fatto vedere l’occhio ad una ragazza di cui mi ero innamorato. Ero proprio innamorato per farle vedere l ‘occhio!
E’ stupendo, disse lei. Mi sembra di averlo già visto.
Ci rimasi male, non so se ci lasciammo per questo. Il mio occhio è un tesoro prezioso, non ce ne sono di così belli in giro.

Non puoi averlo visto! Le urlai.

Da quel giorno le cose cominciarono ad andare male tra noi e alla fine ci lasciammo.
Quando l’ho lasciata mi sono sentito triste. Allora me ne sono andato a guardare un sacco di cose belle a Palazzo Pitti. E’ lì, proprio dentro la Galleria Platina che ho visto una delle cose più belle. La Venere italica. Una storia divertente, Napoleone porta in Francia la Venere de’ Medici e Canova dice, vabbè ne faccio una più bella. E fa la Venere italica. Boh, così almeno mi hanno raccontato. Non lo so se è andata proprio così. Mi pare strano.

Dotto’, abbiamo finito. Quasi quasi ci facciamo questo caffè, mi fa il tipo con il grembiule blu.

Ci penso io ragazzi. Un attimo che esce. Riposatevi.

Insomma questa Venere italica ha due occhi che possono competere con il mio. Non sono proprio uguali, ma si somigliano. Sono belli.

Ecco. Sì, è Illy, si sente la differenza. Un gran caffè. Ok, se state a posto possiamo andare. Chiudo e lascio le chiavi dentro.

Fu così che persi il mio occhio. Lo lasciai sul tavolo e il proprietario di casa lo gettò nel cassonetto.

Seduti

Un canto di uccellini. Questa era la sveglia di Renzo. O meglio, questa era la prima sveglia impostata sul suo Huawei. Un avvertimento. Poi ce ne sarebbero volute altre tre, prima che Renzo fosse sceso dal letto.

Quella mattina, dopo la terza suoneria, fece tutto quello che faceva ogni mattina. Non poteva essere altrimenti, perché era una mattina in tutto e per tutto come le altre.  Accese l’interruttore della sua macchina da caffè compatibile Nespresso, bevve un bicchiere d’acqua, andò a fare pipì, et cetera, et cetera. Portò il caffè alla moglie ancora addormentata, lo lasciò sul comodino, le diede un bacio e poi rimase passivo sette minuti sotto il getto della doccia. Si lavò e si vestì di tutto punto.

Vendeva case.

All’inizio Mara, sua moglie, professoressa di Arte in pensione, gli disse: è importante vestirsi bene per il tuo lavoro. Questo gli bastò. Mara se ne intendeva di arte, aveva un buon gusto. Come ogni mattina Renzo aprì la persiana della stanza da letto. Come ogni mattina cercò il giornale sui gradini dell’androne.

Quella mattina non lo trovò.

Ma erano ormai diverse mattine, quattro, forse cinque, che proprio nel momento di cercare il giornale, la giornata prendeva una brutta piega.

Al posto del quotidiano c’erano, seduti, spalle al portone, del tutto immobili, due ragazzi. Succedeva da giorni. Forse quattro, precisò Mara. Sono quattro mattine che è la stessa storia, disse. Sempre quei due ragazzi, seduti sulle scale. In silenzio. Con un tablet in mano. La prima mattina Renzo scavalcò i ragazzi e andò a lavoro. Al suo ritorno i due ragazzi erano seduti ancora sui gradini di casa. Renzo e Mara cenarono e non si dissero una parola.

Quella sera, la prima di quella storia, Renzo uscì per cacciare gli intrusi. I due non risposero alle sue rimostranze. Del resto fu timido, gli chiese gentilmente di andare a casa.  Quelli rimasero, lì, a fissare il tablet. Non si mossero.

Non si muovono. Disse Renzo quando rientrò in casa.

Così passò il secondo giorno. La sera successiva Mara disse: “Forse sentono freddo”. Renzo prese un vecchio plaid e lo diede ai ragazzi.

E così arrivò quella mattina, la quarta, che ad un certo punto non era più come le altre. Le altre di prima. Prima che quei due si mettessero sui gradini.

Tranne la faccenda del plaid Renzo non aveva preso iniziative. Nonostante la sua inerzia quella mattina sperava più delle altre di trovare le scale libere. Insomma, prima o poi il problema si sarebbe risolto da solo. Invece no, i due ragazzi erano ancora lì. Lui, un giovanotto rosso, capelli ben pettinati, vestito con una maglia Adidas bianca, neanche macchiata. Lei bionda, bruttina, un po’ grassoccia, portava un paio di jeans, una maglietta semplice, bianca. Superga bianche. Una macchia bianca sulle scale.

Ecco cosa sembravano dalla finestra. Una macchia con un tablet in mano.

 Renzo aprì la porta e Mara disse: prima o poi avranno fame e andranno via. Aggiunse andranno via perché Renzo non portasse loro da mangiare, come quando disse sentiranno freddo e lui portò loro un plaid. Non voleva che Renzo risolvesse il problema della fame, come aveva risolto quello del freddo.

I due avevano l’aria di non voler schiodare. Occhi sul tablet, cinque o sei volte al giorno lei passava il dito veloce sullo schermo, come a cambiar pagina.

Mara, il giorno prima, era stata tutto il tempo ad osservarli. Al rientro aveva detto a Renzo: non si sono mossi. Hanno cambiato schermata per cinque o sei volte. Poi sempre fermi.

Fu, quella mattina, al momento di scavalcarli per la quarta o quinta mattina consecutiva che Renzo prese il coraggio. Non è mica vero che il coraggio se non ce lo hai non te lo dai. Ci sono dei momenti in cui lo trovi. Renzo afferrò il ragazzo alle spalle e lo scosse.

Che cosa guardi in quel tablet?!?! Almeno questo si può sapere?

Il ragazzo non rispose. Rimase con gli occhi fissi sullo schermo come se niente fosse accaduto.

La ragazza bruttina si girò, ebbe un sussulto, come se qualcuno l’avesse svegliata. Scosse la testa. Aveva occhi chiari, belli. Erano stanchi, le vene rosse. Si vedeva bene che erano stanchi.

Marco, disse la ragazza bruttina, sarà qualche minuto ormai che stiamo guardando, alzati!

Marco, alzò lo sguardo e disse a Renzo: sì, certo, ci scusi. E’ un po’ che stiamo sulle sue scale. Passi, passi pure. Ci scusi.

Marco sconnesse la energy bank dal tablet e lo porse a Renzo perché glielo tenesse, mentre lui si sistemava e si sgranchiva le braccia.

Renzo lo afferrò, lo guardò, rimase in silenzio e si mise seduto.

Dopo qualche minuto passò velocemente il dito sullo schermo. I due ragazzi intanto si scrollavano da dosso la polvere, allungavano gli arti.

Renzo seduto fissava il tablet, si girò verso Mara, la professoressa di Arte in pensione e disse.

Amore vieni! Mara si mise seduta e rimase a guardare.

Il Tondo Doni è bellissimo nella risoluzione HD, disse Mara, mentre la ragazza bruttina si mise seduta alla sua destra e il bel ragazzo con l’Adidas bianca si accovacciò sul gradino più alto, alle spalle di Renzo.

 Solo qualche minuto, disse Renzo mentre già calava il sole.

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Déjà-vu

Fu così, avevamo quel cono di gelato in mano, a dire il vero io non avevo un cono, ma una granita di caffè con panna in un bicchierino di plastica. In questa storia i particolari contano. Stavamo passeggiando per questa bella cittadina delle dolomiti.

Credi nel déjà-vu? Mi fa lei all’improvviso.

A volte non sento bene e poi lei parla a scatti. Lo ammetto: feci finta di non sentire. Come sarebbe? Insomma non è bello passeggiare per un paesino delle dolomiti e far finta di non sentire. Il fatto è che se le rispondo che non ho sentito lei mi comincia a fare una serie di storie. Mi dice che sto invecchiando, che non mi lavo bene le orecchie, che devo fare attenzione quando lei parla.

Allora lei ripete a voce alta. Credi nel déjà-vu?

Non mi sono mai posto il problema. Sì, più o meno so cosa sia il  déjà-vu, ma che significa crederci? Mica si crede nel raffreddore o nell’appendicite. Sono fatti. A volte succede che ti sembri di aver già vissuto un momento, le dico.

Cambiamo la domanda, mi fa. Non era spazientita. Aveva un po’ di ansia. Mi preoccupo.

Però io mi stavo innervosendo per un altro motivo.Avevo chiesto una granita alla doppia panna, invece la ragazza della gelateria ha messo la panna soltanto sopra. Bè, quando sono arrivato alla fine mi aspettavo un po’ di panna. Invece niente.

Allora, dove stavamo? Ah, sì. Mi dice: allora la domanda è un’altra.

Sentiamo, le faccio.

Pensi che io possa aver già vissuto questo momento?

No, le dico, assolutamente. Se sei venuta con un altro quassù non sono affari miei. Mi dispiace, ma non posso essere geloso del passato.

Ma sei proprio cretino. Mi fa lei. Intanto però mi accorsi che le mani un pochino le tremavano.

Non ti piace il gelato? Le chiedo.

È ottimo, fece lei. E gettò il cono per terra. Poi si toccò il petto. Non respiro! mi fece.

Io me ne stavo lì con la mia granita in mano. Era una bellissima giornata. Non capivo.

Sì avvicina un tale e le chiede di mettersi seduta e respirare. Credo che non fosse uno esperto e la mia ragazza è proprio una bella ragazza. Insomma, secondo me improvvisava per attaccare bottone. E allora gli dico. Va bene, ci penso io. So cosa fare.

Invece non sapevo cosa fare. Lei si alza e comincia a correre. E io a correre dietro a lei con la mia granita in mano. L’ho pagata cinque euro. Non potevo certo buttarla.

Ci troviamo fuori dal paesino, lungo il ruscello. Lei lo attraversa poco prima del ponte.

Dico, se vuoi andare dall’altra parte passa dal ponte.

Invece lei si butta nell’acqua gelida che le arriva alle ginocchia e passa dall’altra parte.

Io arrivo al ponte e le giro intorno. Faccio prima. Sì, perché a saltare da un sasso all’altro non è una cosa da farsi in un attimo. Così quando lei è sul greto siamo di fronte. Le vedo il petto che fa su e giù. Respira con affanno. Lei mi spintona e mi dice: lasciami in pace!

Insomma, continua a camminare a passo veloce, cambia direzione ogni venti o trenta metri. Io la seguo da una certa distanza. Non mi era piaciuto che mi avesse detto: lasciami in pace! In fondo ce ne stavamo passeggiando mano nella mano. Non ho risposto alla sua domanda, d’accordo. Ma mi sembrava una reazione eccessiva.

La cosa strana viene adesso. Dopo una ventina di minuti si butta per terra. Mi avvicino. Punto lo sguardo subito al suo torace. No, non aveva quello spaventoso su e giù di prima. Era sfinita, certo, ma più rilassata.

Mi fa. Scusa amore. Mi ricompri il gelato? Tutto sembrava tornato come prima.

Ecco, le chiedo. Mi sa spiegare questo fatto?

Come? Mi scusi signore, io l’ho ascoltata. Per rispetto alla storia che mi stava raccontando. Ma sono il proprietario di una casa d’aste. Mi spieghi come potrei aiutarla?

Ma che stupido che sono! Non le ho raccontato due fatti importanti. Il primo è questo. Allora, eravamo rimasti io e lei sul prato. Lei allungata con le braccia larghe, io in piedi davanti a lei. Naturalmente le ho detto che non ci sarebbe stato problema e che le avrei comprato di nuovo il gelato. Tra l’altro avrei voluto dire due cose alla stupida che non mi aveva preparato la granita doppia panna come le avevo chiesto. Insomma, volevo tornare anche io alla gelateria.

Ci incamminammo verso il paese. Ci tenevamo per mano. Sembrava tornato tutto al suo posto. Ma appena arrivati davanti alla sua casa d’aste la mia ragazza si impuntò. Sì, come i cavalli che non vogliono saltare. Alla fine mi fece fare il giro dell’isolato. Qui avete quei splendidi giardini dietro alle case. Siamo passati nel suo giardino. È suo il giardino dietro alla casa d’aste?

Sì, è il mio. Più orto che giardino. Comunque continuo a non comprendere.

Un attimo. So che non è un caso quello che è successo. Mica sono totalmente scemo. Quella cosa che è successa non è normale. Allora faccio finta di niente. Litigo un po’ con la ragazza della gelateria, forse ho esagerato, ma se lo è meritato. Comunque torniamo nella nostra stanza, nella pensioncina in cima al paese. Edelweiss si chiama, insomma non è un nome originale ma si sta bene. Ci sistemiamo e scendiamo per cena.

Proprio mentre arriva la nostra fetta di Sacher le chiedo.

Amore vuoi spiegarmi?

Lei era calma. Mi sembrava un po’ stanca, provata da questi fatti. Ma calma.

Mi dice: ti ricordi di quando ti ho chiesto del déjà-vu?

Sì cara. Scusa, non avevo capito che fosse così importante.

Un attimo prima pensavo a mio nonno. Come sai viveva in Maremma. Aveva un carro di buoi. Un giorno, mentre arava il terreno cadde. Io ero lì, camminavo appena. Vidi tutto. Passò due anni in coma prima di morire. Ecco, ho questa scena in testa di mio nonno. Dopo un attimo, davanti alla casa d’aste vedo un dipinto. Un uomo su un carro trainato da buoi. Mio nonno! Capisci. Mio nonno! Era lui. La stessa scena, un attimo prima che mio nonno finisse sotto al carro. Non so spiegare.

Ecco, signore. In questo paese non c’è un medico. È il quindici di agosto. Ne ho parlato con il prete e quello mi ha tirato giù una storia del purgatorio e mi ha chiesto un’offerta per dire una messa. Gli ho dato venti euro. Basteranno? Però non mi convince. Non credo che basti. Una messa, dico. Non credo che basti una messa.

Non mi resta che lei. In fondo il quadro è il suo. È proprio quello lì in vetrina. Un po’ di responsabilità dovrà pur sentirla.

Mah, guardi. Non mi sento nessuna responsabilità, ovviamente. E se non la prendo a calci è soltanto per rispetto della sua povera fidanzata. Da quello che mi dice la signorina ha avuto un attacco di panico. Non sono un medico. Ma ho visto una serie TV su Netflix dove c’era un tipo che aveva attacchi di panico. Però… aspetti.

Mi viene un’idea. Quel quadro è una copia perfetta di un quadro di Fattori, si chiama buoi al carro. Aspetti, aspetti un attimo. Guardi questa bella recensione che ho trovato su WordPress. L’ho stampata e l’ho messa sotto alla cornice. Sa di questi tempi non si vende nulla. Ecco… legga questo passaggio. Proprio qui…

…  sono le chiazze di colore, i contrasti di luci e ombre, che formano il tutto, lasciando intuire il particolare senza entrare in una descrizione minuziosa. … non serve raccontare il dettaglio: chi osserva il quadro già conosce come è fatto uno zoccolo di un bue, una ruota di un carro, il sudore che bagna la camicia di un contadino. Attraverso la macchia di colore che accenna ad ogni particolare la mente si collega all’oggetto che è nei nostri pensieri…

Sì, signore. La sua ragazza ha visto prima il quadro e poi ha pensato a suo nonno. Le ha detto il contrario perché evidentemente la mente ha pensato al nonno dopo aver percepito il quadro. A volte vediamo le cose senza prenderne coscienza… sa.

Quanto costa il quadro?

Poco, trecento euro.

Troppo.

Trecento più tutte le granite doppia panna che vuole. La gelateria è mia.

Lo prendo.

Ah, la ragazza che lavora in gelateria è mia figlia. Sia carino con lei. Soffre di ansia depressiva.

https://vernini.wordpress.com/2012/05/28/fattori-buoi-al-carro/