Come ogni mattina

Come ogni mattina Renzo aprì la persiana della stanza da letto. Come ogni mattina cercò il giornale sui gradini dell’androne.

Quella mattina non lo trovò.

Ma erano ormai diverse mattine, quattro, forse cinque, che proprio nel momento di cercare il giornale, la giornata prendeva una brutta piega.

Continua a leggere

Ogni giorno alle 18

Per chi acquistasse il formato kindle del libro a prezzo agevolato, l’invito è ad effettuare una donazione:

L’emergenza non è finita! Dopo questi primi mesi difficili, le nostre comunità di accoglienza hanno bisogno del tuo sostegno. Puoi aiutare i nostri ragazzi accolti con una Donazione Online oppure con un bonifico bancario. Grazie! Codice IBAN: IT54 R076 0103 2000 0101 6768 143
intestato a: Salesiani per il sociale APS
causale: Emergenza Coronavirus

Santa Maria sopra Minerva e lo spirito sportivo

Frasi del tipo lo sport è una metafora della vita hanno poco senso. Non hanno senso se quotidianamente non ci fermiamo a giocare con quei principi sportivi che poi troviamo in ogni nostra attività, o meglio, quei principi che da altre attività sono stati tradotti in sport. Per questo preferisco dire che la vita è una metafora dello sport e non il contrario. Uno spirito sportivo aiuta a vivere meglio e a vincere le sfide che contano.

Una delle attività umane in cui ritrovo gli impulsi potenti di uno spirito sportivo è l’arte.

A Roma c’è un campo di gioco

che ha visto dispute all’ultimo sangue: il complesso architettonico di Santa Maria sopra Minerva.

La prima partita si è giocata proprio nel nome: la Basilica cristiana fu eretta sopra il luogo del culto pagano dedicato a Minerva Calcidica. Questa partita tra religioni, a Roma almeno, è da considerarsi un derby. Si pensi alla bellissima San Clemente, costruita sopra un antico Mitreo. La Lazio nasce prima, ma non si chiama Roma… storia vecchia.

Non è solo questione di bandiera, ma anche di schemi di gioco: a Roma il gotico, stile architettonico delle squadre del Nord, non è mai stato visto di buon occhio. Santa Maria sopra Minerva può fregiarsi del titolo di essere l’unica chiesa gotica di Roma… senza però essere una Chiesa gotica. Il fatto è che a Roma non puoi realizzare una chiesa gotica come se fosse una qualsiasi cattedrale tedesca, francese, britannica. La facciata non ha nulla di gotico! L’involucro è del tutto anonimo e il peso delle pareti perimetrali ha ancora un posto rilevante nella costruzione dell’edificio, privo delle caratteristiche vetrate che ammiriamo anche nel gotico italiano. La mano è nordica, ma il gioco risente di gusti e abitudini locali. La squadra di calcio che più somiglia alla Basilica di Santa Maria sopra Minerva è la Roma di Liedholm. Una squadra che gioca un calcio moderno, con i difensori in linea che dovrebbero essere veloci e feroci e che invece schiera un giocatore flemmatico come il suo capitano: Agostino Di Bartolomei. Il visitatore che volesse accettare la sfida entrerà nell’edificio e osserverà che all’interno regna un bellissimo disegno che si contrappone alla facciata, uno stile slanciato e severo, impertinente, che ci piace pensare volutamente nascosto agli sguardi severi dei censori rinascimentali e barocchi. Gli affreschi di Filippino Lippi e il Cristo di Michelangelo, insieme agli arredi del XVIII e XIX secolo sembrano quasi schiaffeggiare il gusto di chi fosse innamorato di Saint Denis e Saint Etienne. L’allenatore è nordico, ma il cuore della squadra è un brasiliano, tale Paolo Roberto Falcao, barocco già nel nome. A Roma pesa il giudizio del Vasari, al quale si deve il termine gotico, come sinonimo di uno stile nordico, barbarico, capriccioso, contrapposto alla ripresa al gusto classico greco-romano rivisto dal Rinascimento. Gianni Brera, il Vasari della pedata, lanciava strali contro zona, difese alte, ragnatele, contrapposte al gioco all’italiana, cursori, catenaccio e mentalità del prima non prenderle. Il gotico di Santa Maria sopra Minerva ha vinto nel suo sapersi adattare al gioco all’italiana. Tutti, nel costruire chiese, giocano a zona… mista. . I rifacimenti della Chiesa, avvenuti ad opera di architetti niente male (il Maderno, Antonio e Giuliano da Sangallo….) sono stati posti in essere per cancellare ogni traccia di questo stile tanto inviso nella Città dei papi. Soltanto nel 1848-55 Padre Girolamo Bianchedi, un Garcia, rimise il gotico al centro del villaggio. Un gotico posticcio, invero, con un restauro che la Guida Rossa del Touring non stenta a definire infelice, ma che piace proprio per il suo carattere di rottura con i paradigmi rinascimentale e barocco che hanno fatto la bellezza di Roma insieme alla sua antichità.

Molto più conosciuto e apprezzato dai romani è l’Elefante, disegnato dal Bernini e realizzato da Ercole Ferrata, che regge l’obelisco egizio e che contraddistingue la piazza antistante alla chiesa, nota a Roma come Piazza dell’elefante o, per i più anziani, Piazza del porcellino, vista la somiglianza del pachiderma berniniano al meno nobile suino. Anche quella del porcellino è stata una bella sfida. L’elefantino fu commissionato dai domenicani che quasi obbligarono il grande scultore e architetto a realizzarlo secondo i loro voleri (sorse una dotta discussione a proposito di un testo dal quale era tratta l’oscura simbologia dell’elefante e dell’obelisco risalente al IV secolo AC e ritrovato nel 1655). Il Bernini era un esteta del calcio, un Beccalossi Grande tecnica, ma difficile da imbrigliare. In quell’occasione dovette cedere ai committenti che dimostrarono una certa dose di arroganza, ma si tolse la soddisfazione di orientare le terga dell’elefantino (da dietro del tutto simile ad un porcello) verso la facciata del convento dei domenicani. Un ininfluente quanto beffardo cucchiaio messo a segno a risultato acquisito. Si fece pagare profumatamente la commissione ed espose l’Ordine all’eterno scherno del popolo. Perse la partita, ma segnò il gol che rimase nella storia.

La partita di Champions nel complesso di Santa Maria sopra Minerva si giocò con la statua del Cristo, che pure varrebbe da sola il costo dell’abbonamento al canale sportivo proprietario dei diritti televisivi. All’epoca della sua realizzazione Michelangelo era sotto contratto con una squadra plurititolata e potente: il Genio era vincolato da un impegno in esclusiva con i potentissimi e ricchissimi eredi Della Rovere che reclamavano di vedere conclusa la tomba di Giulio II, oggi, ancora incompleta, in San Pietro in vincoli.

La cosa non va presa sotto gamba: immaginate Messi vincolato con il Barcellona che ogni tanto si assenta per giocare qualche ben pagata esibizione in giro per il mondo. Barcellona o non Barcellona sta di fatto che Michelangelo intese a modo suo questa esclusiva e, fortunatamente per noi, non si sottrasse ad altre prestigiose commissioni, che però, è evidente, non poterono coinvolgerlo a tempo pieno e che andavano portate a termine in fretta e furia, quasi fossero scappatelle clandestine, esibizioni fuori contratto. Una partita di calcetto il lunedì sponsorizzata dalla pizzeria del quartiere. Una di queste opere è proprio il Cristo Risorto, che secondo i patti sarebbe stato da collocare con tutta calma, in quattro anni dalla stipula dell’accordo, nella basilica di Santa Maria sopra Minerva.

Uno che da giovane ha scolpito la Pietà che ammiriamo in San Pietro, un Cristo risorto lo fa con la mano sinistra tra un caffè e uno schizzo. Si prende un aereo e si va a giocare contro una All Stars messa insieme in fretta e furia. Se Michelangelo si concede quattro anni di tempo è perché decide di farlo quando proprio non ha niente di meglio da fare. Lo scultore, anche quando è un genio, deve fare i conti con il marmo e sappiamo bene con quanta cura Michelangelo scegliesse il materiale nelle cave di Carrara. Questa volta però qualcosa va storto: quando si avvicina la conclusione dei lavori emerge una venatura nera, proprio nella zona del volto del Cristo. L’è tutto da rifare, direbbe il conterraneo Bartali qualche secolo dopo! Sebbene i contratti tra notabili e artisti fossero una cosa seria, Michelangelo, che avrebbe dovuto concludere l’opera nel 1518, spedì a Roma soltanto nel 1520 la nuova versione del Cristo, al quale aveva lavorato il suo allievo Pietro Urbano, incaricato di concludere l’opera in loco. Abbiamo immaginato il Barcellona che obtorto collo sopporta i tradimenti del suo Messi, ora immaginiamo anche l’altra parte. C’è una squadra meno blasonata, il cui patron è un rampollo bene come Metello Vari, che si assicura le prestazioni extra contrattuali della star dell’epoca e se ne vanta in giro. Messi, una sera di queste verrà a giocare una partita a casa nostra. Immaginiamo però che il frutto di questo prestigioso incarico tardi a venire. Possiamo pensare alle pressioni, ai tempi che stringono e al genio costretto a consegnare il lavoro prima di averlo completato. Possiamo anche non immaginare, perché Metello scrisse ben ventisei lettere al Maestro, la prima delle quali, datata 13 dicembre 1517, denota una pazienza fuori dal comune. Ecco però che con due anni di ritardo arriva una statua da completare, affidata ad un promettente sconosciuto. Ok, dice Messi, non riesco mai a liberarmi per questa esibizione, però ti mando un giovane centravanti che diventerà presto famoso. Si sa, ai giovani calciatori piacciono le donne, le birre e le macchine sportive. Il giovanotto incaricato di completare la statua è così scapestrato da provocare gravi danni. Un autogol e una gran figuraccia. Sebastiano del Piombo, un amico, nel settembre del 1521 avverte il maestro di come stanno le cose. Urbano s’era intascato il danaro che Michelangelo gli aveva pagato in anticipo e si era perso tra gioco d’azzardo, bische clandestine, cortigiane e chi più ne ha più ne metta. Il maestro deve correre ai ripari, prima sostituisce Pietro Urbano con un altro collaboratore, poi si rende conto del cattivo risultato finale del lavoro e si offre di mettere mano ad una terza versione del Cristo. Ok, dice Messi: la parola è una, vengo io. Metello è stanco di attendere, e poi la statua, pur sempre firmata da Michelangelo, non è così male. “Va bene così maestro”, magari mi fa uno sconticino e mi tengo tutte e due le statue, pure quella con la macchia in faccia… (di recente si è ipotizzato che sia quella custodita a Bassano Romano).

(la prima versione del Cristo Portacroce http://sanvincenzo.silvestrini.org/info/statua/).

Sulla fama della statua, certo una delle opere meno gettonate di Michelangelo, pesa sicuramente la poca soddisfazione che la stessa opera ha dato all’autore, ma si sa che Michelangelo era un perfezionista. Il fatto è che l’opera non colpisce come il Mosè o le Pietà. Tuttavia si vede bene Michelangelo anche nel Cristo Portacroce. L’avrà pur scolpita con la mano sinistra, quasi di nascosto e affidandosi a improbabili collaboratori, ma il Cristo di Santa Maria sopra Minerva è un’altra sfida vinta da Michelangelo sul marmo. La torsione del corpo di Cristo rispetto alle gambe e alle braccia e lo studio anatomico sono i segni distintivi della bottega del Maestro. Il raffronto con la statua di Bassano dimostra l’accento sulla torsione del busto calcato da Michelangelo nella seconda opera, in linea con quanto stava facendo in quegli anni. Abbiamo già detto del mausoleo di Giulio II, ebbene, proprio lì, Michelangelo prima scolpiva e poi “torceva” ex post il Mosè, trattando il marmo come se fosse creta. Ti ho fatto aspettare ma ti faccio un gol come quello che ho fatto domenica contro il Real Madrid, dice Messi ai suoi pazienti mecenati. E lo fa.

Ma non è finita. In tutta questa gloria c’è però una sfida che Michelangelo non riuscì a vincere: alla fine qualcuno era sempre chiamato a coprire le nudità delle sue opere. Dopo il Concilio di Trento, come il Braghettone dipinse drappi sui nudi della Cappella Sistina, un oscuro artigiano scolpì un bizzarro drappeggio bronzo a nascondere la virilità del Cristo.

In fondo se Pelè avesse giocato contro le difese di oggi non avrebbe fatto tutti quei gol!

Il Bacco…squilibrato

image

Scolpire una statua non è una cosa che si realizza in pochi minuti. Le statue sono fatte di marmo: un materiale duro e resistente per definizione. Ho appena scritto due ovvietà, ma nell’epoca dell’estrema confusione tra reale e virtuale, queste ovvietà non sono così ovvie. La statua è una immagine materiale e reale molto distante dalle animazioni che popolano i nostri smartphone. Tra l’altro il marmo ridotto a statua ha un enorme problema: deve restare in piedi. Il giovane Michelangelo impiego’ un anno (tra il 1496 e il 1497) per completare l’opera raffigurante il Bacco e fu un record di velocità. Per un artista al primo soggiorno romano che si gioca le sue carte con potenti committenti (il cardinale Riario prima e Jacopo Galli dopo) non deve essere facile la scelta.

Il Bacco di Michelangelo è visibilmente brillo, incede plastico e squilibrato, pur di marmo, a stento si regge in piedi. Le fattezze sono chiaramente ellenistiche ma il personaggio ben figurerebbe in un moderno film di animazione. Il primo committente, non a caso, rifiutò l’opera!

Giulio II e il Mosè. Michelangelo e il plagio geniale.

Può una persona che a stento balbetta in pubblico, probabilmente pedofilo, un papa che accede alla cattedra di Pietro attraverso intrighi e sanguinose manovre di corte, un uomo al quale Erasmo da Rotterdam dediImmaginecò un amaro scritto satirico Iulius Exclusus e Coelis (in cui il Papa si vede negato l’accesso in paradiso), può un uomo del genere aver promosso tanta bellezza?

Se pure si ignorasse l’epoca d’oro dell’arte vissuta a Roma sotto il pontificato di Giulio II, se anche non sapessimo nulla di Raffaello, Tiziano, Michelangelo, Bramante, basterebbe entrare in San Pietro in Vincoli per rispondere affermativamente a questa domanda.

Può il più grande artista del Rinascimento (mi prendo la responsabilità di questa classifica) aver copiato e poi, insoddisfatto, elaborato secondo la propria sensibilità artistica il Mosè?

Basterebbe prendere due riferimenti, il San Giovanni Evangelista di Donatello, e il Torso Belvedere per rendersi conto che queste due opere siano state un modello per Michelangelo, ma che al tempo stesso il soffio del genio le abbia come impregnate di energia, rese di carne viva, attraverso la carica dinamica di una torsione, di un gesto plastico e flessibile colto nel marmo, perfezionato una volta che la statua era già stata completata, una correzione sulla roccia, come fosse pongo. Ma anche questa mirabile torsione, questa dinamica, questo movimento vitale è stato copiato, rubato a qualcuno: basterebbe confrontare il Mosè con il Profeta Isaia di Raffaello. Certo, l’originale è un dipinto, la copia è marmo, ma tant’è che qualcuno aveva raffigurato prima la stessa tensione che ammiriamo nel Mosè.

Ad onor del vero si potrebbe obiettare che a sua volta Raffaello possa essersi ispirato per il suo Isaia all’Ezechiele dello stesso Michelangelo nella Cappella sistina. Il fatto è che i due artisti, che la leggenda vuole rivali e antiteci, non disdegnassero di prendere spunti l’uno dall’altro. Non sono certo impressioni: Michelangelo conosceva benissimo tutte le opere citate. Le aveva studiate, apprezzate, commentate. Una leggenda, quasi storia, racconta che lo stesso Giulio II, sotto il cui regno è stato scoperto il Torso in Campo dei Fiori, avesse ordinato a Michelangelo di completarlo, ma l’artista, si sarebbe rifiutato: quello che gli era stato affidato era troppo bello per essere toccato!

Così la storia ci parla di un papa, che i suoi contemporanei chiamavano il Papa guerriero” o “il Papa terribile”, che non pago di tutte le opere nate sotto il suo pontificato, commissiona la sua tomba al più grande  artista di sempre (classifica ovviamente personale), con il quale ha sempre avuto un rapporto burrascoso. Per questa tomba il papa rende impossibile la vita al genio, lo minaccia, gli revoca e affida incarichi, ne decide fortune e pene. Ma quello è un toscano, un Bartali delle arti figurative: più è costretto a ricominciare da capo (immaginiamo quante volte abbia dovuto esclamare: l’è tutto da rifare!) e più ci mette foga e mestiere.  L’artista lavora per decenni, interrompendo, riprendendo, litigando con mezzo mondo e con il potente committente. Alla fine il mausoleo non si fece, ci resta una statua, una sola statua. Ma è grandiosa, perfetta, pare che lo stresso Michelangelo abbia preso a martellate il ginocchio imprecando contro una statua che si rifiutava di parlare. Solo che agli occhi del critico, anche il più imbranato,  non si può nascondere che la statua sia un plagio, una specie di collage, ma che mai un collage fu più felice (ancora classifica mia)!

Al moralista, se vogliamo allo storico, a cinquecento anni dalla morte del papa, basta la riflessione su uno dei peggiori pontefici al quale dobbiamo il più rilevante tesoro artistico di Roma. All’amante del bello la favola insegna che il genio non sarebbe stato tale se non fosse stato umile, non avesse accettato commissioni da un odioso despota e non avesse misurato le sue forze con quelle degli artisti ammirati e in qualche misura … copiati.