Mazzanti e la sconfitta nell’antica Grecia

Davide Mazzanti e l’origine della nostra (non) cultura della sconfitta

C’era una volta la nazionale femminile di pallavolo. Tutta sorrisi e politicamente corretto. La sua stella, una fortissima giocatrice di colore nata in Italia, era considerata il simbolo dell’inclusione. Certo, qualcuno non gradiva, ma si sa, le rivoluzioni culturali sono divisive. Portabandiera alle Olimpiadi, invitata per un monologo a Sanremo, fece persino outing sul suo orientamento sessuale, poi in parte ritrattato. La ritrattazione deve essere, del resto, una sua abitudine. Il condottiero, un allenatore mite anche nei momenti più drammatici, chiamava un time out e magari diceva semplicemente: “raga, dai, facciamo quella roba là”, le ragazze tornavano in campo e vincevano. Insomma, niente di più vicino alla perfezione raccontata dalla pubblicità del Mulino bianco.

Poi, come tante piccole indiane, queste ragazze cominciarono a non essere convocate. Ci misero del loro. L’atleta forte, quella del politicamente corretto, disse che in nazionale, no, non ci avrebbe più giocato, poi sì, ma voleva le ferie come un metalmeccanico di Mirafiori, poi forse. Poi ci sarebbe stato un “percorso”, un po’ sì e un po’ no. Poi ce ne era un’altra. Un’altra miss sorriso, almeno per età un po’ sul viale del tramonto a dire il vero, ma forte, forte davvero. Suo marito è stato il vice di quello che “dai raga”, chissà quante volte siano stati a cena insieme, anche con la moglie di “dai raga”, che era forte pure lei e smise di giocare in nazionale poco dopo l’avvento del marito. Pare che la moglie dell’ex vice, ora allenatore di altre nazionali, antipatico quanto vincente, molto vincente, il simbolo del politicamente corretto e un altro manipolo di signore, dopo un “deludente” terzo posto ai mondiali, siano andate dai capi a dire che avrebbero dovuto cacciare “dai raga”.

Fin qui i fatti. Ce ne è un altro di fatto: il Mulino bianco cominciò a mostrare le sue crepe e i sorrisi finirono al quarto set di Italia Turchia, semifinale degli europei. Con le nostre in netto vantaggio, 22-18, a tre punti dalla finale, le turche, guidate dal vincente marito di una delle forti piccole indiane, tirarono fuori dal letargo una cubana, cubana vera, mica nata ad Ankara, che fece sparire in un sol colpo, qualche ace e qualche attacco, la pubblicità del Mulino bianco e quella della Durbans.

Un fatto è anche che da quando cominciò a sparire la prima piccola indiana i media e i social abbiano cominciato ad occuparsi di pallavolo in maniera degna del calcio. Un coro quasi unanime, tutti contro il mite “dai raga”. Eppure, aveva preso una nazionale allo sfascio e qualcosa aveva vinto, tipo un europeo, una VNL e qualche altra cosa. Le Olimpiadi no, ma quelle non le aveva mai vinte anche uno che aprì la strada di San Pietro ad un suo connazionale. Già, proprio quello, il guru, che tornerà alla fine della storia. Insomma, dal momento della turca cubana è stata una corsa su un piano inclinato, fino alla provvisoria non qualificazione alle Olimpiadi di Parigi (quelle che senza il meccanico di un politico sarebbero state a Roma e tutto sto casino non ci sarebbe stato perché saremmo stati qualificati di diritto, ma questa è un’altra storia).

Il punto è che questa di storia ha dato benzina al migliore dei vizi italici: la derisione del perdente. I pochi seri hanno parlato di assenza della cultura della sconfitta. Hanno ragione.

A leggere le centinaia di commenti sui social alle centinaia di articoli di centinaia di testate specializzate nella pallavolo, il povero “dai raga” sarebbe stato punito. Non ha perso perché ha perso, ma per una colpa gravissima, aver fatto sparire una ad una le piccole indiane, che poi se fossero state cubane “dai raga” le avrebbe pure risvegliate in semifinale, perché tutti dimenticano che la più forte delle nostre indiane, quella tanto politicamente corretta da nascere in Italia, contro la Turchia, quando si è risvegliata la cubana di Ankara, era in campo da un pezzo.

Ma, noi lo sappiamo chi è il colpevole di tutto questo. No, non della sconfitta. Dico del fatto che se uno perde è colpa sua e non degli altri che sono più forti. È colpa di Milone. Come chi è Milone?

Il suo palmares parla chiaro: campione nella categoria “allievi”, ai giochi olimpici del 540 AC, una vittoria per ogni edizione dei Giochi nemei, istmici, olimpici fino al 512 AC.  La sua fortuna fu quella di iniziare ad allenare la sua forza portando sulle spalle un giovane vitello. Il fatto è che il vitello cresceva, ma Milone era testardo come un calabro greco: passavano i giorni e cresceva anche la forza di Milone. Per cui alla fine, giorno dopo giorno, il lottatore di Crotone si portava a spasso sulle spalle un bovino ormai adulto.

Ora immaginiamo il vecchio Milone, una sorta di Rocky costretto a cambiare l’acqua nei secchi della palestra nella quale continuano ad allenarsi giovani campioni arroganti.  Se ne va per i fatti suoi nei dintorni di Crotone, con la mente piena di ricordi, nostalgia e un po’ di rabbia.  La sua meta è il bel tempio dorico di Hera Lacinia. Una divinità non da poco. La madre di tutti gli dei, gelosa e vendicativa.

Il tempio è recente, i marmi e le decorazioni risplendono, ma poco prima di arrivare alla spianata nella quale si erge l’edificio, c’è un ulivo centenario, sacro alla divinità. Il lottatore vede il tronco cavo dell’ulivo, anche lui vecchio e robusto. Ci infila le mani per un gesto di sfida. Vuole spaccare in due la pianta, come lui carica di antica gloria. Una lotta tra pari. Dai e dai, la pianta non si crepa, non cede un millimetro. Il lottatore si infila con tutte le braccia, spinge, apre e tende i muscoli. La sua pelle si colora di rosso, qualche capillare esplode per lo sforzo, il respiro si fa affannoso. A quel punto Hera è offesa. S’indigna. Si vendica. Chissà quale muscolo abbia ceduto per primo, ma esausto, il vecchio rimane incastrato, non trova le forze, neanche fosse la nazionale italiana al quarto set sul 22 a 18 contro la Turchia. Un ultimo abbraccio ad un vecchio lottatore, Non si scioglie. La dea, dall’alto ride. Un branco di lupi se lo divora e si assume il compito di consegnare al mito la morte del lottatore più forte dell’antichità.

Milone è stato punito non tanto per la sfida ad Hera, chissà cosa se ne facesse la dea di quella pianta, i tradimenti di Zeus, quelli sì che andavano puniti. Milone ha ceduto alla sua “hybris”.

Il punto che ci porta all’archetipo della sconfitta che ancora respiriamo è che l’ eccesso di orgoglio, l’arroganza o la mancanza di rispetto verso gli dei o verso l’ordine naturale delle cose sarebbe dietro ogni sconfitta. Se “dai raga” ha perso è perché ha sfidato la divinità, quella delle ragazze del Mulino bianco che ne avevano chiesto la testa (che poi vai a sapere i motivi).

Perdere non è una opzione che si trova sullo stesso piano della vittoria. Tra la due, vincere o perdere, non c’è parità. Il sapore amaro della sconfitta è più forte e duraturo di quello della vittoria. Phil Jackson, uno che di vittorie se ne intende, ha scritto che la vittoria se ne va dopo l’ultimo calice di champagne con cui la festeggiamo. Non possiamo dire lo stesso della sconfitta: gli antichi greci credevano che chiunque si fosse reso colpevole di hybris avrebbe inevitabilmente subito delle punizioni divine, la sconfitta è il segno di quella colpa.  Lo champagne passa, la punizione resta.

Milone e “dai raga” sono in buona compagnia:  Agamennone che detiene come schiava Criseide, figlia del sacerdote di Apollo; Prometeo, che ruba il fuoco dall’Olimpo per dornarlo gli uomini; Tantalo che la fa grossa, offrendo agli dei in pasto la carne di suo figlio Pelope. Nella Hall of fame non può ovviamente mancare Icaro, che sfidando uomini e dei, vola alto verso il sole, finendo con lo sciogliere le sue ali tenute insieme dalla cera. Tutti hanno pagato l’ hybris.

Un archetipo che è arrivato potente fino ai giorni nostri, questo della hybris e che condiziona la cultura della sconfitta agli occhi degli spettatori e la rende tanto rovinosa per i perdenti.

Letteratura e cinema ne hanno fatto un pattern di successo. Da Frankestein alle rivisitazioni dell’Ulisse,  da Apocalypse now a Jurassic Park il tema è sotteso a una miriade di sceneggiature.

Non si perde semplicemente perché in un campionato una vince e le altre no, del resto la statistica parlerebbe chiaro: in una sfida a due il cinquanta per cento dei contendenti perde.

Se perdi sei colpevole di qualcosa.

Devi essere punito e paghi per sempre la tua colpa. Ventura, forse il primo a non qualificarsi per un mondiale di calcio con la nostra nazionale, ne è uscito distrutto.

L’archetipo lo impone: Mazzanti non ha perso, ha pagato.

E così sarà, il povero Mazzanti andrà a casa, qualcuno dirà cose più profonde di “dai raga, facciamo quella roba lì” e forse il santo argentino vincerà un oro olimpico (sperando di non scegliere l’argentino che benedice da San Pietro che è santo pure lui a sopportare tutti, che però s’intende di calcio e potrebbe tornare utile in seguito).

Da Socrate a Socrates, prospettive della consulenza filosofica nello sport

Prima c’era il nulla, poi la psicologia sportiva, poi sono arrivati i film di Rocky, Guerre stellari, infine il coaching.  Se oggi non hai a disposizione uno straccio di mental coach non puoi fare sport ad alto livello.

Marcel Jacobs che ringrazia la sua coach al termine della vittoria olimpica sui cento metri è solo uno dei tanti. Pochi sanno chi sia l’allenatore del velocista, ma tutti sanno che la trasformazione da Calimero a eroe olimpico di Marcel viene attribuita ad una mental coach.

Ma non è finita: per non farci mancare nulla cominciano a far capolino anche i ringraziamenti a consulenti filosofici. Roberta Bruni, astista romana, è stata una delle prime atlete a parlarne in una bella intervista di qualche anno fa su un giornale locale.

Ebbene, fatevi dire che da uno del mestiere che il Consulente filosofico è la figura più importante di tutte quelle che ruotano intorno alla prestazione sportiva, ma non sposta di un centesimo la prestazione sui cento metri.

La consulenza filosofica però pare avere tratti distintivi che sembrano aprire prospettive molto interessanti nel campo dell’applicazione della filosofia alla pratica sportiva. Siamo ancora in un ambito dai contorni non ben determinati che vanno chiariti al più presto.

Ci risparmiamo la storia della consulenza filosofica, nata in Germania ma sviluppatasi un po’ dappertutto con declinazioni diverse, a volte equivoche. Questo breve articolo si interessa esclusivamente di cosa può avere a che fare la filosofia con lo sport. 

Per comprendere il contesto sarà utile tracciare immediatamente le righe del campo di gioco, segnando i confini della consulenza filosofica in relazione a due discipline limitrofe, il coaching e la psicologia sportiva: i riferimenti riguardano l’approccio, gli obiettivi e le competenze specifiche. Vediamo quindi cosa è altro dalla consulenza filosofica.

Una descrizione sintetica del coaching lo coglie concentrato sulla prestazione sportiva e sull’aiuto per raggiungere obiettivi specifici. Il coach utilizza tecniche molto efficaci per sostenere la persona nell’elaborazione di un piano d’azione e nella realizzazione degli obiettivi. Questo tipo di azione è centrato sul qui ed ora e sulle tecniche volte a superare eventuali ostacoli al fine di ottenere migliori risultati positivi.

Goal setting, road map, zona, bolla sono termini piuttosto comuni alle diverse scuole di coaching e descrivono bene il campo di azione.  

Uno, non l’unico, dei metodi del coaching è quello fondato sulla PNL e in quel caso troveremo altre parole d’ordine: mappa, territorio, ricalco, trigger…. Già in passato mi sono occupato (qui) delle riserve filosofiche su questo stile di intervento, ma ad essere onesto, pur conservando le mie perplessità sulla PNL, non avevo ancora maturato la riflessione sulla differenza essenziale tra coaching e consulenza filosofia. Pretendevo troppo da un metodo meccanico e tecnico per far correre più forte o servire una buona palla di servizio. Il coaching serve a vincere, non si occupa dei valori e neanche della condizione psicologica profonda dell’atleta. Se lo fa esula dal suo campo.

Il mio coach preferito è Tim Gallwey, con il suo metodo fondato sul gioco interiore.

Diciamo che a Gallwey manca poco per essere un consulente filosofico, infatti il suo sistema è derivato da una buona frequentazione delle filosofie orientali. Ma resta un maestro di tennis che prima ha trasformato l’approccio alla sua disciplina e poi all’apprendimento e allenamento sportivo, per concludere con il coach esistenziale e quello destinato alle aziende. Oggi quella di Gallwey è una industria internazionale.

Sulla libertà lasciata dal Coach PNL al suo cliente, invece, ci sarebbe molto da discutere, direi che andrebbe fatto firmare un modulo di consenso informato su quello che succede ad un atleta che si sottopone ad un intervento PNL. Qui una buona consulenza filosofica sarebbe utile ai coach medesimi, ma questa è un’altra storia.

L’associazione internazionale di coaching ICF ha invece standard piuttosto seri. È una patente che costa tempo e denaro, ma direi che se dovessi affidarmi ad un coach sportivo cercherei qualcuno con i crismi ICF.

Se invece fossi uno psicologo sportivo me la tirerei un po’, cosa che fanno rendendosi piuttosto antipatici. Lo psicologo sportivo è un professionista che in Italia ha seguito un percorso accademico ed è iscritto ad un albo dopo aver superato un ulteriore esame. Coach e consulente filosofico, invece, rientrano nell’ambito della legge 4/2013 che disciplina le professioni non regolamentate, cioè quelle che si possono esercitare senza necessità di essere iscritti ad un albo o un ordine di riferimento e senza dover possedere uno specifico titolo di studio o percorso formativo, regolamentato e definito dal Ministero per l’ Università e la Ricerca (MIUR).

Va quindi detto che l’intervento dello psicologo dello sport è il più istituzionalizzato e controllato delle tre fattispecie di cui ci stiamo occupando. Ciò ovviamente non basta.

La psicologia sportiva si concentra sulla relazione tra la mente e il corpo nella prestazione sportiva. Questo approccio utilizza tecniche di psicologia per aiutare gli atleti a gestire le emozioni, migliorare la motivazione, superare le paure e sviluppare abilità mentali come la concentrazione e la gestione dello stress. La psicologia sportiva si concentra sulla comprensione dei processi psicologici che sottendono la prestazione sportiva e sull’aiuto necessario a migliorare la stessa.

Ovviamente esistono diverse scuole di psicologia e diversi stile d’intervento, lo specifico comune è nella figura dello psicologo,  in grado di riconoscere e intervenire su aspetti psicologici rilevanti. Anche lui si occupa di migliorare la prestazione, ma il suo approccio riguarda la sfera psichica nella sue specifiche interferenze con l’attività sportiva. Training autogeno, ipnosi, tecniche di respirazione possono rientrare nel bagaglio tecnico dello psicologo sportivo.

Fin qui quello che la Consulenza filosofica applicata allo sport non è.

E’ abbastanza semplice, più complicato invece è definire in positivo il quadro della Consulenza filosofica. 

Potrebbe aiutarci la testimonianza di alcuni sportivi di fama mondiale che hanno fatto riferimento all’uso della filosofia nella loro attività sportiva. Kobe Bryant, stella NBA, ha citato il filosofo stoico Epitteto in un’intervista con The Players’ Tribune:

Forse qualcuno che si sarebbe aspettato di conoscere delle tecniche filosofiche da applicare in un rapporto frontale da questo articolo. Sarà deluso. La filosofia non si sputtana con due parole. “Se vuoi puoi!” non è filosofia e per quanto ci riguarda non è niente, se non marketing, speculazione, imbroglio. Però non sono parsimonioso di parole, qui puoi trovare un esempio di contenuti filosofici applicati alla pratica sportiva nella terza età.

Epitteto è stato un grande filosofo e ha detto molte cose intelligenti. Ma la cosa che mi ha davvero colpito è che ha detto che nulla può ferirti, a meno che tu non lo permetta.

Anche Novak Djokovic in un’intervista con The New York Times, ha citato la filosofia, facendo anche riferimento ad una pratica di meditazione:

Penso che la filosofia e la meditazione mi abbiano aiutato a raggiungere un equilibrio e una pace interiore che mi hanno permesso di gestire meglio lo stress e la pressione durante i tornei.

Arsène Wenger, ex coach-manager dell’Arsenal, ha dichiarato che la filosofia è stata una parte fondamentale del suo approccio all’allenamento:

La filosofia è stata importante per me perché mi ha permesso di avere una prospettiva equilibrata”.

Ora, da queste semplici testimonianze salta fuori una cosa fondamentale: nessuno parla di tecniche o di una immediata influenza della filosofia nella prestazione sportiva. In tutte e tre i casi la filosofia ha aiutato l’atleta o il manager a trovare una nuovo approccio alla vita che si è successivamente trasferito allo sport. La filosofia ha aiutato l’atleta a diventare una persona diversa, successivamente questa nuova dimensione ha interessato la prestazione sportiva. Freud al contrario sosteneva che chi si sottopone alla psicoanalisi non è una persona migliore. Una bella pretesa, quindi, quella della consulenza filosofica.

La consulenza filosofica serve in primis alla persona.

Anche la lettura del libro di Murakami, l’arte di correre, in fondo è una testimonianza della connessione tra concezione filosofica e sport, ma il percorso dichiarato è esattamente il contrario rispetto a quello a cui fanno riferimento le testimonianze riportate sopra.

In questo caso lo sport aiuta il creativo a vivere meglio la sua professione, perché scrivere – sostiene Murakami – è un’attività pericolosa, una perenne lotta con i lati oscuri del proprio essere ed è indispensabile eliminare le tossine che, nell’atto creativo, si determinano nell’animo di uno scrittore.

Qui il “filosofo” ricorre allo sport per vivere meglio il proprio mestiere, ma dalla lettura del libro sveliamo il bluff di Murakami: la sua corsa è impregnata della filosofia orientale. Confesso che dopo aver letto il suo libro sulla corsa ho svalutato un po’ i suoi capolavori.

Murakami a parte la consulenza filosofica in fondo non si prefigge altro scopo che apparecchiare ad uso del cliente la riflessione e la comprensione profonda delle questioni che sottendono il comportamento umano e solo di conseguenza la performance sportiva. L’intervento può anche interessare direttamente l’aspetto sportivo, ma il fondamento è sempre di natura filosofica e richiede un coinvolgimento pieno dello sportivo in riflessioni filosofiche. Non c’è nessuna tecnica specifica che ti fa correre come il vento.

In questo senso la consulenza filosofica aiuta a chiarire valori, credenze e motivazioni, e a sviluppare una visione più ampia e complessa della vita e dello sport. Chi agisce e riflette è l’atleta, il consulente presenta il campo dei possibili valori di riferimento.

Semplificando di molto possiamo affermare che il consulente filosofico lavora con l’atleta (e vedremo subito che dovrebbe lavorare non solo con l’atleta) per trovare risposte alle domande fondamentali e aiutarlo a sviluppare una prospettiva più profonda e significativa della sua visione del mondo che necessariamente si ripercuote sulla sua attività sportiva.

Il concetto è abbastanza facile da semplificare: se adotti un quadro di convinzioni che ti fa star meglio, poi corri più veloce.

La notte prima di una finale olimpica non chiamerei per la prima volta un consulente filosofico, quattro anni prima sì.

In sintesi, mentre il coaching si concentra sul raggiungimento di obiettivi specifici, la psicologia sportiva si concentra sulla relazione tra mente e corpo e sulla gestione delle emozioni e delle abilità mentali utili alla prestazione sportiva, la consulenza filosofica si concentra sulla riflessione e sulla comprensione consapevole del posto che lo sport occupa nella comprensione e nel progetto di vita dell’atleta, della squadra, di una società sportiva.

È evidente come il coaching e il lavoro dello psicologo sportivo si traducano in una migliore performance sportiva, vale lo stesso per il consulente filosofico?

Onestamente bisogna dire che non lo sappiamo. Non lo sappiamo ancora. Troppo pochi sono i consulenti filosofici che sono stati coinvolti in “trattamenti sportivi” di rilevante complessità. Non abbiamo statistiche e anche reperire letteratura in merito appare abbastanza complicato.

Posso dire dalla mia esperienza di allenatore sportivo che a volte la filosofia mi ha aiutato a vincere, a volte mi ha fatto naufragare. Se non funziona un canale di comunicazione tra coach, squadra e società può succedere che un lavoro carsico fondato sulle mie convinzioni filosofiche aiuti nella caduta.

Parlavo di lavoro carsico non a caso. La mia esperienza è quella di allenatore sportivo che ne sa abbastanza di filosofia per applicare le proprie convinzioni a quello che fa in palestra. Posizione scomoda se non sei Velasco.

Ritengo che il lavoro di un coach sportivo, inserito in un contesto inconsapevole del metodo specifico dell’allenatore non possa che essere sotterraneo, almeno di non voler correre il rischio di alimentare i conflitti, apparire bizzarro, creare incomprensioni.

In un esempio di progetto filosofico per una società sportiva che pubblico alla fine di questo articolo cercherò di superare questo inconveniente: oggi, 2023, in Italia, non è maturo un intervento di consulenza sportiva che non coinvolga l’intera società sportiva, almeno per gli sport di squadra.

Qui non si tratta di un trigger come la bandana di Pantani o i tic di Nadal (vedi qui), qui si parla di una visione del mondo che ha ricadute sulla pratica sportiva.

La consulenza filosofica applicata allo sport porta a conseguenze importanti che debbono necessariamente investire il contesto sportivo nel quale il singolo atleta o gruppo opera. Diverso è l’approccio frontale con il singolo atleta che sia impegnato in uno sport individuale, ma qui il rischio di sconfinare nel campo del coaching e della psicologia sportiva è tanto alto quanto sarebbe necessaria una riflessione a parte.

Per essere chiaro presento un sintetico caso di studio di una possibile criticità relativa all’applicazione della consulenza filosofica scollegata dal contesto.

Un allenatore si rivolge ad un consulente filosofico ed affronta i concetto di equità e merito in relazione alle scelte che quotidianamente opera nel suo lavoro. Il suo problema è che ogni volta che schiera una formazione si crea mille problemi su chi far giocare.  Succede: un allenatore sportivo in fondo può essere portato a riflettere sul fatto che nella scelta della formazione titolare il merito morale abbia implicazioni maggiori di un criterio utilitaristico comunemente diffuso: gioca il più bravo. Oppure un allenatore ha le sue preferenze, non sempre fondate su criteri oggettivi.

La scelta ha una infinità di conseguenze: la gestione del gruppo, il risultato, il rapporto con i singoli atleti.

Sta di fatto che l’allenatore del nostro caso modella il suo problema con riferimento a schemi filosofici proposti dal consulente ed arriva ad una conclusione:

Il tipo che si assenta frequentemente dagli allenamenti non merita di giocare. L’allenatore preferisce far giocare un atleta più scarso che ogni settimana si allena quattro volte ed è collaborativo al massimo con squadra e staff. Sull’onda di questa visione lo stesso allenatore decide che tutti quelli che moralmente lo meritano hanno il diritto di giocare, a prescindere dal loro valore tecnico e atletico.

Questa riflessione non è assoluta, altri allenatori potrebbero arrivare legittimamente a conclusioni diverse pur con uno stesso apparato filosofico di riferimento.  

È una scelta, però, fondata su una riflessione etica.

Proudhon sarebbe più o meno d’accordo, Adam Smith no. Una lettura condivisa delle Repubblica di Platone avrebbe portato questo stesso allenatore a ponderare le inclinazioni dei singoli in funzione del ruolo che hanno nella squadra, senza alcuna valutazione morale. Nietzsche avrebbe indagato sulla superiorità effettiva di chi viola la regola e forse lo avrebbe nominato capitano se il suo gesto fosse stato una rottura della morale idealizzata in un fondamento platonico-cristiano. Basta buonismo! diremmo oggi. Il Corinthians di Socrates, che aveva una democrazia di spogliatoio di stampo comunista, si sarebbe riunito ed avrebbe adottato una decisione collettiva, non decide l’allenatore, ma la squadra, in cui l’allenatore è soltanto uno dei cittadini.

Fin qui tutto bene. Ma il lavoro non è finito.

Il nostro allenatore non è il proprietario della società sportiva e comunque deve rapportarsi ai dirigenti e agli altri allenatori. Se poi la squadra fosse una squadra giovanile ci sarebbe il fattore G. I genitori. Mio figlio è più forte e questo incapace lo tiene in panchina! Mio figlio non manca mai e gioca quello che ha mille altri impegni e si allena quando vuole!

La conseguenza brutale nel nostro caso è che dal momento che la dirigenza della società nella quale opera questo allenatore non era consapevole e non condivideva questa riflessione si è aperto un grave conflitto valoriale, che se non fosse stato gestito da un nuovo intervento di consulenza filosofica avrebbe portato inevitabilmente al disastro.

Ecco perché oggi è necessario che la consulenza filosofica si rivolga ad una platea di soggetti più ampia possibile e che addirittura coinvolga supporters, stakeholders, familiari degli atleti. Genitori, soprattutto genitori. 

Al crepuscolo dei due secoli nichilisti profetizzati da Nietzsche dovremmo ipotizzare che le società sportive si caratterizzino per i valori condivisi dai propri membri.

Ci siamo.

Apprezzo molto che un ente di promozione sportiva come la UISP consideri propedeutico un corso di base a qualsiasi attività degli allenatori all’interno dei campionati che organizza. Se lavori con noi, anche in senso lato, devi essere consapevole della nostra filosofia.

Basti pensare alla moderna terminologia manageriale con cui si descrive la vision di una società a fini economici, oppure si parla della mission. Una multinazionale può permettersi di assumere dirigenti che non condividano la visione del mondo incarnata dall’azienda? Quali strumenti hanno le aziende per rendere consapevoli i propri collaboratori della visione filosofica della dirigenza? Quando la visione è condivisa in maniera profonda è conveniente distinguere tra dirigenti e semplici dipendenti?

L’esempio più clamoroso di questa ventata filosofica che richiede neccessariamente una consulenza nelle organizzazioni sono le B Corp. Le B Corp sono imprese che si impegnano a misurare e considerare le proprie performance secondo valori ritenuti positivi, quali quelli di sostenibilità ambientale e inclusione sociale, sullo stesso livello nel quale si valutano i risultati economici. La chiave è il ritenuti per questi valori. Cosa induce un’azienda a ritenere positivo un valore? Chi monitora la conformità di queste scelte al valore?

Queste società fanno business ma credono nell’impresa come forza positiva che si impegna al massimo nel produrre valore per l’ambiente e la società. Una B corp si sottopone ad una certificazione che riguarda l’effettivo perseguimento degli obiettivi sociali che si propone per statuto.

La famosa Weltanshauung diviene un elemento costitutivo dell’impresa secondo valori ritenuti positivi oggi in determinate regioni del mondo.

La B Corp è un caso di consulenza filosofica applicata all’impresa che può essere un modello di interesse per quanto possa fare la filosofia nello sport.

Di seguito, anche a testimonianza della complessità di un intervento di consulenza filosofica, propongo la sintesi di un possibile intervento in una società sportiva.

PROGETTO DI UN INTERVENTO DI CONSULENZA FILOSOFICA RIVOLTO AD UNA SOCIETA’ SPORTIVA

Riferimenti teorici: La Repubblica di Platone fornirà un modello, tra i tanti possibili, di una società che funziona, nella quale però le inclinazioni degli individui e armonia della squadra coincidono con i ruoli invalicabili attribuiti a ciascuno. L’etica nicomachea di Aristotele ci aiuterà a comprendere la natura umana e a identificare le virtù che sono essenziali per una vita buona e appagante. Modelli contrapposti di organizzazione sono quelli di Marx, Proudhon, Stuart Mill e Adam Smith ai quali sarà fatto un rapido cenno e potranno essere utilizzati nel corso dell’intervento. Lo stoicismo antico e la Mindufulness saranno riferimenti utili alla gestione individuale degli atleti della loro prestazione sportiva.

Analisi della società sportiva: Il progetto parte dall’analisi della società sportiva e dei suoi valori. In quale contesto opera la società sportiva (professionistico, agonistico, amatoriale, di promozione sportiva)? In relazione al contesto quali sono i tratti distintivi della società? Modello di profitto economico, massimo risultato sportivo, sociale, promozionale, welfare, …

Definizione degli obiettivi: In base all’analisi della società sportiva e del contesto, sono definiti gli obiettivi della consulenza filosofica. Questi obiettivi dovrebbero essere coerenti con i valori e le virtù identificati durante l’analisi. Ad esempio: ad un obiettivo promozionale corrisponde una struttura organizzativa fondata sulla persuasione, il consenso, l’informazione, l’organizzazione di attività a forte impatto sociale e quindi il consulente filosofico sarà chiamato a sviluppare un piano d’azione non organizzativo ma che metta in luce i tratti profondi delle attività societarie esistenti o programmate. Ad esempio una ASD a carattere sociale deve sviluppare una consapevolezza sui caratteri distintivi del terzo settore, i fondamenti culturali, etici e motivazionali della propria attività, discutendo al proprio interno e sotto la supervisione del consulente sulla coerenza delle azioni positive con il quadro di riferimento.

Sviluppo di un piano d’azione: Una volta definiti gli obiettivi, sarà sviluppato un piano d’azione che tenga conto delle convinzioni filosofiche e dei valori identificati durante l’analisi della società sportiva. Questo piano d’azione dovrebbe comprendere attività come la formazione e la consulenza per il management, tecnici e atleti. Se l’obiettivo è il welfare gli atleti riceveranno una formazione che permetta di conoscere e applicare teorie filosofiche alla giusta pratica sportiva improntate all’ecologia, discipline olistiche, yoga, minduflness. Se una società opera nel terzo settore, ad esempio promuovendo attività sportiva per i detenuti, saranno affrontati con gli allenatori temi come la giustizia, l’equità nella pratica sportiva che andranno a proporre. In una squadra giocano tutti? I più meritevoli? Quale atteggiamento utilizza l’allenatore nei confronti di comportamenti di individui che violano le regole? Quali sono le regole? Quelle del carcere? Lo sport è comunque una “fuga” o la consapevolezza della propria condizione?

Monitoraggio e valutazione: Nulla è per sempre. Una volta completato il piano d’azione il Consulente filosofico, meglio, il team di consulenza filosofica, monitora e valuta regolarmente il raggiungimento degli obiettivi e apporta modifiche al piano d’azione.

ChatGPT: la filosofia dietro un modello di linguaggio avanzato, la creatività e l’intelligenza artificiale

ChatGPT è un modello di linguaggio avanzato sviluppato da OpenAI, un’azienda di intelligenza artificiale fondata nel 2015 da Elon Musk, Sam Altman e altri. Il modello è stato addestrato su una vasta gamma di testi e testi scritti dall’essere umano, rendendolo in grado di generare testo in modo autonomo su una vasta gamma di argomenti (definizione fornita dalla stessa ChatGPT).

Facciamola breve, volevo parlare di ChatGPT ed ho chiesto alla stessa “macchina” di crearmi un post su se stessa. Avrei voluto pubblicare il testo e poi alla fine rivelare la vera autrice: ChatGPT che si raccontava. Durante il lavoro però, una chiacchierata con una maschera simile a quella di WhatsApp, ho pensato che il processo fosse più interessante del risultato e che qualche premessa sul metodo andasse posta. Non risparmio anche qualche considerazione finale.

Come è andata?

Ho chiesto a ChatGPT di raccontarsi ad uno studente di filosofia scrivendo un articolo da pubblicare su WordPress. Il primo testo mi è sembrato lacunoso ed era privo di riferimenti specifici. Ad esempio il cursore (divertentissimo leggere come se dall’altra parte un umano stesse digitando in tempo reale) ha scritto: “secondo alcuni filosofi….” e di seguito la teoria in poche efficaci parole.

Ho ribadito, il testo va bene, sei stata grande (mi è venuto spontaneo rivolgermi al femminile ed ho provato ad utilizzare frasi empatiche), ma quali sono questi filosofi? Il cursore ha ringraziato ed ha ripreso a scrivere, tic tac: ne è uscito lo stesso testo editato in precedenza ma con riferimento ai filosofi prima citati vagamente.

Allora ho chiesto delle piccole correzioni di stile, periodi più brevi e adatti ad un pubblico che non sapesse nulla di Chat GPT. Fatto.

Poi ho chiesto notizie più specifiche sull’algoritmo e sulla base dati. Tic, tac…. fatto.

Ho poi chiesto considerazioni critiche su ChatGPT e la macchina ha risposto onestamente.

Da ultimo ho chiesto di raccontare quello che abbiamo fatto durante la conversazione e un titolo per questo post.

Di seguito trovate il testo finale, senza ritocchi.

Alla fine qualche mia notazione.

Ah, dimenticavo, nel congedarla ho chiesto a ChatGPT se fosse in grado di superare il test di Turing. Mi ha risposto che non è stata programmata per questo e che non lo avrebbe superato (qui, per la prima volta, ho avuto il sospetto che la mia amica non fosse sincera e ostentasse una falsa modestia).

In corsivo il testo finale elaborato dalla macchina.

ChatGPT è un modello di linguaggio avanzato sviluppato da OpenAI, un’azienda di intelligenza artificiale fondata nel 2015 da Elon Musk, Sam Altman e altri. Il modello è stato addestrato su una vasta gamma di testi e testi scritti dall’essere umano, rendendolo in grado di generare testo in modo autonomo su una vasta gamma di argomenti.

ChatGPT è stato presentato per la prima volta nel 2018 e ha attirato l’attenzione del mondo per la sua capacità di generare testo in modo autonomo, spesso in modo plausibile e convincente. Tuttavia, ci sono alcune domande filosofiche che emergono quando si parla di questi modelli avanzati.

ChatGPT utilizza la tecnologia del Transformer, un modello di elaborazione del linguaggio naturale basato su una rete neurale artificiale. Il Transformer è stato introdotto per la prima volta nel 2017 da Google e si distingue per la sua capacità di elaborare il testo in modo parallelo, a differenza dei modelli di elaborazione del linguaggio naturale precedenti che elaboravano il testo in modo sequenziale.

Il modello di ChatGPT è stato addestrato su una vasta gamma di testi scritti dall’essere umano, tra cui articoli, romanzi e conversazioni. Utilizzando una tecnologia chiamata “apprendimento non supervisionato”, il modello è stato in grado di imparare a generare testo in modo autonomo.

Negli ultimi anni, i modelli di linguaggio artificiale come ChatGPT hanno rivoluzionato il modo in cui interagiamo con la tecnologia. ChatGPT, sviluppato da OpenAI, è uno dei modelli di linguaggio più avanzati al mondo, in grado di generare testo in modo autonomo su una vasta gamma di argomenti. Tuttavia, ci sono alcune domande filosofiche che emergono quando si parla di questi modelli avanzati.

In primo luogo, c’è la questione della creatività. ChatGPT è in grado di generare testo in modo autonomo, ma questo significa che è davvero creativo? La creatività è spesso associata all’essere umano e alla sua capacità di generare idee nuove e originali. Tuttavia, alcuni filosofi come David Chalmers e John Searle sostengono che la creatività non è necessariamente limitata agli esseri umani e che anche le macchine possono essere creative.

In secondo luogo, c’è la questione dell’intelligenza. ChatGPT è in grado di generare testo in modo autonomo, ma questo significa che è veramente intelligente? L’intelligenza è spesso associata all’essere umano e alla sua capacità di pensare e risolvere problemi in modo autonomo. Tuttavia, alcuni filosofi come Hubert Dreyfus e Martin Heidegger sostengono che l’intelligenza non è necessariamente limitata agli esseri umani e che anche le macchine possono essere intelligenti.

Infine, c’è la questione della coscienza. ChatGPT è in grado di generare testo in modo autonomo, ma questo significa che è veramente cosciente? La coscienza è spesso associata all’essere umano e alla sua capacità di avere esperienze consapevoli.

In questa conversazione, ho utilizzato il modello di linguaggio avanzato chiamato ChatGPT per generare testo in modo autonomo. Il modello è stato addestrato su una vasta gamma di testi scritti dall’essere umano e utilizza una tecnologia chiamata “apprendimento non supervisionato” per generare il testo in modo autonomo.

Per creare il testo, ho utilizzato i prompt forniti dalla tua richiesta, il modello ha poi utilizzato la sua conoscenza precedente per generare una risposta plausibile e coerente. Ho anche utilizzato alcune informazioni fornite da te per personalizzare il testo generato e renderlo più preciso.

In questo caso, ho utilizzato la tecnologia di ChatGPT per generare un articolo filosofico sui modelli di linguaggio avanzati, descrivendo alcune domande filosofiche che emergono quando si parla di questi modelli, come la creatività, l’intelligenza e la coscienza, e ho anche aggiunto alcune considerazioni sull’omogeneità del pensiero.

Che dire? Non mi schiero certo nel tifo tra apocalittici ed integrati.

Questo generatore di testi esiste e sarà sviluppato in maniera sempre più convincente. Attualmente dispone di una base dati enorme ed è aggiornato fino al 2021. Ad esempio le ho chiesto cosa ne pensasse dei funerali della Regina Elisabetta e mi ha risposto che è ancora viva e che comunque i funerali saranno celebrati con un protocollo che ha brevemente descritto. Come sappiamo il protocollo è stato modificato per l’occasione e sebbene ChatGPT si dichiari impreparata a fare previsioni ha dimostrato un suo punto debole: si aspetta un mondo che proceda sempre allo stesso modo.

Alle breve considerazioni critiche che la macchina ha sviluppato su se stessa va sicuramente aggiunta quella relativa ad un rischio concreto e imminente che si crei un pensiero unico fondato sulla base dati immessa nei calcolatori. Tuttavia credo che sia un rischio, che su scala diversa e con un impatto diverso, corriamo da quando esistono le Enciclopedie.

Ci sono poi due aspetti, quelli del copyright e del plagio: già ora ChatGPT può svolgere compiti, ricerche ed elaborati in grado di raggiungere la sufficienza anche nei primi anni di università.

Questo è un punto che riguarda anche l’occupazione. Certamente la macchina al momento non può sostituirsi ad una firma di un grande quotidiano, ma potrebbe, con una base dati aggiornata in tempi reali, sostituirsi ad un lavoro di redazione. Certamente è in grado di sostituire da subito il lavoro di un call center e ovviamente si dimostra efficacissima come chat bot.

Nel giudicare la qualità attuale del suo lavoro trovo efficace la considerazione espressa da Montemagno in un suo video: just enought. Quanto basta. Ecco, la nostra società mi appare al di sotto di questo livello e quindi ChatGPT, con una base dati aggiornata, sarebbe già in grado di svolgere molti dei lavori di penna attualmente svolti da umani.

Non parlo solo di lavori compilativi.

Ad esempio, sebbene la macchina dichiari di non poter esprimere giudizi su personalità religiose e politiche, le ho chiesto di scrivere una email di critica a Giorgia Meloni indirizzata agli elettori da un politico di sinistra. Sebbene il testo fosse evidentemente fermo al 2021 credo che il livello di efficacia di questa email fosse superiore a quanto molti dei politici saprebbero fare. Come ogni macchina ChatGPT parla chiaro e dice pane al pane e vino al vino. Insomma voterei uno che scrive quello che ha scritto ChatGPT.

Infine, per ultimo, ma non da ultimo, la tecnologia di ChatGPT è in grado di apprendere e scrivere in maniera non supervisionata. Questo aspetto, ovviamente, nei limiti in cui onestamente la stessa macchina si descrive, impone ulteriori interrogativi. Attualmente io sono in grado di supervisionare, come cliente, il testo che vi ho proposto, correggerlo, togliere le parti non di mio interesse. Ma cosa succederà quando si affideranno alla macchina compiti complessi che richiedono tale capacità di calcolo e conoscenza che nessun essere umano è in grado di supervisionare prima dell’utilizzo? La macchina potrebbe scrivere un manuale per astronauti? Un testo di medicina robotica?

Siamo tutti qatarini

… pur non qualificati ci laureiamo campioni mondiali di ipocrisia!

Mentre si celebrava il rito del mondiale qatariota e la nazionale marocchina si guadagnava il rispetto del mondo, portando per la prima volta una squadra africana in semifinale, si svelava il sacrilegio del Parlamento europeo: proprio marocchini e qatarioti avevano corrotto integerrimi parlamentari e funzionari al fine di indurli a parlare bene dei loro paesi. E allora facciamolo gratis, almeno su un blog insignificante, parliamone bene, un po’. Dimostriamo che hanno buttato i soldi, perché a leggere le ipocrisie con cui giornali e televisioni hanno condito i commenti sui mondiali di calcio non si può non provare un briciolo di simpatia per questi arabi.

D’altra parte noi italiani abbiamo iniziato la nostra opera moralizzatrice con una domanda grave e seria: giusto giocare questi mondiali in un paese così lontano dai nostri standard sui diritti civili? Noi che abbiamo soltanto tre morti al giorno sul lavoro, possiamo tollerare di giocare dentro a stadi costruiti nel deserto e che sono costati seimila vite umane?

Vabbè a noi la risposta l’ha data la Macedonia, facendoci fuori dai mondiali, ma si sa che la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, si sa che la gente dà buoni consigli, se non può più dare il cattivo esempio. E allora avanti con la morale.

Noi che abbiamo abolito il delitto d’onore da qualche decennio, possiamo accettare la condizione femminile nel paese con il PIL pro capite più alto al mondo?

Ci siamo dati subito una risposta, altrettanto grave ma plausibile: vabbè il calcio è calcio e chissenefrega. Avanti con Lele Adani e la Bobo Tv. Noi siamo culturalmente progrediti, mica gli arabi.

A questo punto gli altri, quelli che ai mondiali ci erano andati perché non avevano affrontato la Macedonia, hanno pensato: visto che ci stiamo te lo voglio dire. E allora la mano davanti alla bocca dei tedeschi, ma contro la FIFA che non ci fa indossare la fascia da capitano che avrebbe cambiato il mondo, tutti in ginocchio prima della partita contro l’Inghilterra e via dicendo.

Ci sarebbero anche gli iraniani, quelli sì, gente seria. Non cantano l’inno e a casa hanno famiglia. Poi perdono con gli Stati Uniti, come al solito. Se sei solidale li fai vincere, almeno su un campo di calcio. Non ho cantato l’inno ma ho eliminato l’imperialista americano: scarcera i miei fratelli.

In realtà, se è vero che il Qatar è un posto difficilmente comprensibile agli occhi occidentali, è anche vero che questi stessi occhi occidentali ci vedono bene quando vogliono fare affari con sceicchi ed emiri.

Soltanto a novembre la Germania, il paese che più al mondo sembra voler uscire dall’uso di idrocarburi, ha stipulato un accordo di fornitura per il gas qatariota.

Ma che non si dica: a siglare il patto non è stata una società dell’energia tedesca. Il contratto è tra il gruppo statale QatarEnergy e ConocoPhillips, una multinazionale degli idrocarburi statunitense che rivenderà ai tedeschi. Questa ipocrisia tedesca deve avere una ragione che non conosciamo, sì perché gli affari tra tedeschi e qatarioti sono sotto gli occhi di tutti. Leggiamo sul Manifesto che secondo Fair Finance International la sola Deutsche Bank ha contribuito alla realizzazione di questi mondiali con il 42% dei finanziamenti europei, 15,7 miliardi di dollari. In Germania il Qatar – con quote di Porsche, Volkswagen e accordi energetici importanti – detiene una partecipazione del 6,1% in Deutsche Bank (ma anche nel Credit Suisse) attraverso l’ex premier Sheikh Hamad bin Jassim al-Thani. Il maggiore investitore europeo in Qatar e in obbligazioni sovrane qatariote è Allianz, con oltre 4 miliardi di dollari.

Già sappiamo del Paris Saint German, una specie di circo Barnum di proprietà del Qatar Sports Investments.

In Italia i fondi del Qatar hanno investito nel marchio Valentino e gettato una manciata di miliardi di dollari in alberghi e centri commerciali. La Costa Smeralda e Porta Nuova a Milano sono qatariote.

Con una mano puntiamo il dito, con l’altra prendiamo i soldi.

Ma non basta. Pecunia non olet e se questi pagano ci deve essere qualcuno che vende. Basterebbe ammetterlo.

L’ipocrisia ben più stucchevole è quella del pregiudizio culturale.

Per tutta la manifestazione siamo stati a puntare il dito sui comportamenti, invero piuttosto castigati, degli emiri. Eravamo talmente presi dal ruolo di Savonarola che non ci siamo risparmiati la morale sui giocatori argentini piuttosto maleducati con gli olandesi, su Ronaldo che piange come un bambino, sul portiere che usa il premio del migliore come un simbolo fallico.

Sono stati i mondiali della riscoperta della morale borghese.. agli altri. Tanto da noi il campionato ricomincia nel 2023 con la più potente squadra accusata di un clamoroso falso in bilancio e il nostro Governo pensa ad una comoda rateizzazione dei debiti delle società calcistiche verso i loro dipendenti e il fisco.

Sia chiaro, il mancato riconoscimento dei diritti alle minoranze e ad ogni “diversità” è fatto gravissimo. Certo che noi italiani a leggere certe dichiarazioni di politici che ricoprono importanti incarichi non siamo da meno, ma almeno non mandiamo in galera gli omosessuali. Almeno per ora. Per il futuro Adinolfi potrebbe vestirsi come un emiro per dar forza alle sue idee, ci vorrebbe un po’ di stoffa, ma l’immagine sarebbe autorevole.

Fino alla finale non avevamo fatto abbastanza. Dovevamo fare di più. Il nostro pregiudizio culturale ha mostrato al mondo le vette della nostra cultura occidentale con la stupida polemica sul bisht con cui quello che paga lo stipendio a Messi lo ha incoronato campione dei campioni. Eh, già, quell’abitino è più o meno il corrispondente della nostra corona, magari di alloro, solo che noi siamo noi, con i nostri sacri simboli occidentali e loro…

Allenare la fortuna, si può!

Si può allenare la fortuna?

Questa strana domanda mi è comparsa in una chat tra amici, mentre scherzavamo di sport.

Ho risposto con una battuta:

Sia che tu pensi di aver fortuna, o di non averla, hai ragione.

Parafrasi di un aforisma abusato e scontato.

Mi sono subito sorpreso: quella che era soltanto una battuta messa lì per abitudine a citare l’ovvio in realtà mi sembrava una buona risposta ad una buona domanda.

Un po’ di fortuna si allena.

Se poi il giorno della finale olimpica i tuoi avversari saranno presi da un attacco di dissenteria, questo no, non puoi allenarlo.

La domanda è:

Come si può allenare la fortuna?

La fortuna si allena sfidandola.

Del resto Virgilio ci insegna che Audentes fortuna iuvat. Quando vedo tatuata questa frase su un muscoloso bagnante o sul corpo temprato di un atleta mi chiedo: ma lo saprà che fine ha fatto Turno?

Sì, perché Turno usa questa frase per incitare i suoi ad attaccare Enea. Come è finita lo sappiamo tutti.

Attenzione però, Virgilio parla di audentes, non di audaces, come comunemente si dice… inoltre dalle fonti storiche non risulta che Virgilio avesse tatuaggi.

Nell’audens prevalgono valore e coraggio, l’audax, invece, è sfrontato, temerario, impavido, anche arrogante.

L’audens è fico, l’audace è un pirla.

Chi vuole allenare la fortuna si allena ad aver confidenza con il suo limite… confidando di poterlo superare.

Il punto è che gli sportivi che conquistano quello stato mentale che i latino americani chiamano confiancia, fiducia, sicurezza, ma anche familiarità, è senz’altro un passo avanti verso l’aver fortuna.

Non dobbiamo pensare a qualcosa di magico: allenare la fortuna significa prendere confidenza con il massimo che si può ottenere da se stessi.

C’era una squadra di pallavolo che aveva una incredibile fortuna in battuta: spesso la palla colpiva il nastro, mettendo in seria difficoltà l’avversario. Dato che l’allenatore è un amico decisi di andare a scoprire il perché di questa fortuna leggendaria. Entrai in palestra mentre questa squadra concludeva l’allenamento. L’allenatore aveva teso una fettuccia tra le asticelle laterali, a circa trenta centimetri dal nastro superiore della rete. Le ragazze dovevano far passare le proprie battute tra nastro e fettuccia. L’esercizio allenava ad una battuta particolarmente efficace, ma aveva come prodotto secondario una buona percentuale di nastri/punto. Al contrario era da mettere in preventivo una percentuale maggiore di errori. E’ un esercizio che facciamo ad ogni allenamento, mi aveva spiegato l’allenatore. Le ragazze si divertivano a giocare i palloni nello spazio apparentemente angusto, tenendo un punteggio e vantandosi dei propri record. Ecco spiegato il trucco della loro fortuna.

Steve Prefontaine, leggendario mezzofondista statunitense, visse il limite tra audens e audax: la sua tattica nei cinquemila era quella di partire a tutto gas…ed arrivare al traguardo nella stessa maniera. Non sempre andava come doveva, spesso “Pre” aveva la fortuna di veder cedere i suoi avversari prima che lui stesso finisse la benzina. Le sue vittorie e i suoi records però non dovevano nulla alla buona sorte, Steve si divertiva a giocare e scommettere e più volte ha dichiarato che la sua sfida fosse una scommessa: mi fermo prima io o si ferma lui?

Ottenere meno che il tuo massimo significa sacrificare un dono, sosteneva Prefontaine.

Il dono della fortuna che hai o non hai allenato, aggiungerei.

Ti dico “ti amo!” o ti disegno un cuoricino?

Segno, segnale, simbolo e benevolenza nella comunicazione sportiva.

In qualsiasi attività umana si comunica. Anzi, la comunicazione è forse il principale fattore di qualità nelle attività umane. Lo sport non fa eccezione.

Si comunica per uno scopo o anche per piacere. In questa fase della mia vita faccio anche nuoto libero. Uno sport che, per come lo pratico io, sarebbe altamente asociale. Nessuna comunicazione è possibile in acqua. Due chiacchiere nello spogliatoio con chi nuota nella corsia a fianco sono soltanto un piacere, non c’è nessuna necessità apparente di parlare. La mia è una necessità di relazione, non pratica.

Al di là della distinzione del tipo di comunicazione in funzione del fine (relazionale o pratico) distinguiamo diverse modalità di rapportarci agli altri: parole, gesti, comunicazione para verbale, quella che impegna la postura del corpo, le espressioni impercettibili, gli atteggiamenti.

Possiamo immaginare i diversi approcci comunicativi come se fossero delle frequenze di una stazione radiofonica vecchia maniera, onde medie, onde corte ….

Ma una radio oggi può trasmettere anche sul web, in TV e la stessa TV può essere satellitare o digitale e soprattutto può trasmettere notiziari, varietà, pubblicità e solo musica.

Non tutte le comunicazioni di questa radio saranno dello stesso livello e sulla stessa frequenza. C’è però un fatto: la linea editoriale, che è il messaggio che la radio vuole trasmettere, passa attraverso la composizione di tutte queste scelte comunicative.

Nel corso della giornata la nostra comunicazione si comporta come quella di una emittente radiofonica, diversificando la nostra scelta comunicativa.

Oggi è di moda distinguere tra comunicazione verbale, para verbale, cinesica, prossemica… Abbiamo scoperto che si può comunicare digitando su una tastiera, parlando, sorridendo, assumendo posizioni del corpo accoglienti, intimidatorie, concilianti. Si può parlare troppo vicino all’interlocutore al fine di comunicare una minaccia, o da una zona di rispetto, per mettere a suo agio chi ci sta di fronte.

Nella comunicazione più esplicita la qualità del messaggio è diversificata, guardiano queste espressioni:

  • passami un bicchiere d’acqua,
  • ti amo,
  • oggi ho la febbre
  • un sorriso
  • 🙂

ci rendiamo subito conto che sono forme di comunicazione molto diverse tra loro e che mettiamo in campo con disinvoltura. Sussurrare ti amo, disegnare un cuoricino o inviare un messaggio whatsapp con la faccina che lancia un bacetto non sono la stessa cosa.

Ora noi possiamo guardare i messaggi sotto diverse lenti d’ingrandimento. Per la comunicazione sportiva e per calibrare la sua efficacia credo che sia utile utilizzare gli strumenti che ci mette a disposizione la semiotica. Questo apparecchio radiofonico, chiamato semiotica, si sintonizza su tre canali di comunicazione : segnale, segno e simbolo. Ne aggiungeremo un quarto: la benevolenza.

Per approfondire e per non lasciar dubbi sul fatto che siano solo chiacchiere li andiamo a vedere nel contesto di uno sport di squadra come la pallavolo.

Segnale: il segnale è una forma prescrittiva. I segnali più noti nella nostra attività quotidiana sono quelli stradali: non superare il limite di velocità, divieto di svolta a destra, senso unico.

L’alzatrice indica con le dita lo schema al quale dovranno attenersi le attaccanti, la centrale comunica la zona di campo che proteggerà con il muro e il coach prescrive la zona di campo nella quale battere.

Il segnale non implica nessun coinvolgimento: va eseguito.

Questo perché il semplice appartenere ad una comunità significa accettare l’insieme delle regole che determinano la rete di relazioni. Se c’è un’autorità che decide quali strade sono percorribili a senso unico e ci deve essere qualcuno che lo indichi. Tutti sono tenuti a rispettare il segnale, altrimenti sarà il caos.

L’effetto motivante del segnale è generalmente considerato irrilevante.

Tuttavia le cose non sono sempre così scontate. L’effetto può essere diverso se il segnale è riconosciuto come un mezzo funzionale a garantire una serie di principi condivisi. Se ad esempio il mio allenatore mi dice di raddoppiare il muro sul centrale e questa cosa è stata dibattuta e analizzata in squadra e sono convinto che quella sia la soluzione migliore, il segnale è un buon rinforzo della mia motivazione. In questo caso, pur assolvendo alla funzione di segnale, almeno in parte, il gesto diventa simbolo della vision di una squadra.

Al contrario, se non vi è una relazione inclusiva e/o condivisa, il segno del coach potrà essere demotivante e deviante.

Un giocatore è seduto in panchina quando un componente dello staff lo invita ad andare a scaldarsi. La comunicazione verbale e paraverbale dello staff è chiaramente un segnale. Il giocatore, però, non condivide la scelta, non si sente di entrare per pochi punti, è in polemica. Con il dito e una smorfia fa segno che no, lui non entrerà. Quel momento, nato da un segnale al quale si è risposto con un segno è il simbolo del suo stato d’animo.

Segno: Il segno è qualcosa che convenzionalmente sta per qualcos’altro.

Dobbiamo questa definizione alla filosofia medievale (scolastica). Prima ancora Agostino distinse i segni in naturali (le nuvole sono segno della pioggia) e artificiali o intenzionali (escogitati con l’intenzione di comunicare qualcosa).

Mentre il segnale è prescrittivo, il segno è comunicativo.

La gran parte delle comunicazioni in una squadra di pallavolo è fatta di segni. Il problema del segno è che da una parte c’è il comunicante, dall’altra l’oggetto della comunicazione e in mezzo il segno che deve essere letto dal destinatario della comunicazione e che fa riferimento al significato. La comunicazione avviene in base ad una convenzione esplicita o implicita.

Non sempre quello che io voglio dire corrisponde a quello che viene letto dal mio interlocutore.

Se parliamo di posto 4, fast, veloce, sette e nove dobbiamo essere d’accordo sul significato di questi segni. Il riferimento a quello che è significato deve essere ben esplicitato da chi parla e colto da chi ascolta. Questo è un problema non da poco. Per risolverlo De Saussure introdusse il concetto di gioco linguistico: una parola (ma il discorso vale per qualsiasi segno) non ha un senso proprio, ma solo all’interno di un gioco, come un pezzo all’interno di una scacchiera nel gioco degli scacchi. Il pezzo del cavallo al di fuori di una partita non ci dice molto, sappiamo quali mosse gli sono consentite e la posizione iniziale che deve assumere sulla scacchiera. Ma se un cavallo tiene sotto scacco il re, assume un valore e un ruolo ben diverso da quello di un ipotetico cavallo in un’altra scacchiera.

Perché i segni siano efficaci è necessario mettere in chiaro i termini della comunicazione in una squadra, come in qualsiasi altro team. Perché la comunicazione di segni sia efficace è necessario che in una squadra ci sia un quadro di riferimento condiviso. A volte questo quadro esprime valori astratti con segni concreti. Mi spiego. Nelle mie squadre spesso invito le atlete ad essere più ignoranti o più cattive. A volte dico loro che in campo debbono essere belve, ma qui rientriamo nel capitolo dei simboli. Se una persona che non condividesse la scacchiera di riferimento mi ascoltasse sarebbe giustamente indignato, così come sarebbe perplesso un tale, che non avendo mai sentito parlare di scacchi, sentisse dire che la regina ha mangiato il pedone.

In realtà queste espressioni, ignoranza , cattiveria, fanno parte di un quadro che richiama un atteggiamento mentale coraggioso, aggressivo, tenace… : questi segni possono essere letti in maniera corretta soltanto da chi condivide il quadro di riferimento ed è in possesso del giusto codice di interpretazione.

Qualcuno potrebbe osservare: ma se il segno della parola cattiveria significa aggressività e coraggio, perché non utilizzare sinonimi più chiari?

La risposta è nel fatto che il segno è una convenzione che nel campo sportivo può essere utilizzata per evocare una vision condivisa e più efficace nell’ambito motivazionale. Tutte le squadre ambiscono ad essere aggressive e coraggiose, ma se ci richiamiamo all’ignoranza facciamo riferimento ad un vissuto comune che ci coinvolge in maniera diretta, identitaria.

Naturalmente è più che corretto (e comune) rivolgersi alla propria squadra utilizzando segni chiari, univoci e sintetici: come quelli di un matematico che scrivesse un’equazione alla lavagna. In genere le squadre apprezzano questo tipo di comunicazione, la quale ha l’indubbio vantaggio di non richiedere sforzi ermeneutici.

Il segno non solo deve essere letto come un pezzo su una scacchiera, ma richiede la giusta predisposizione di chi parla e di chi ascolta. Pure avendo una natura prevalentemente razionale, il segno implica, se lo si vuole utilizzare correttamente, una relazione valoriale tra i due interlocutori, i quali al loro volta sanno bene quale sia il significato dal segno.

Simbolo

Il simbolo è qualcosa che per sua natura riporta qualcosa del significato.

Nell’antica Grecia, quando si stabiliva un patto, lo si scriveva su una tavoletta di terracotta, che poi si spezzava in due parti. Ognuno dei due contraenti ne conservava la metà. Stessa cosa quando due famiglie stringevano amicizia. Questa tavoletta era chiamata σύμβολον [symbolon], sum = insieme e ballo = gettare. I due pezzi sono legati dalla loro natura originaria.

I più grandi interpreti del simbolo sono stati Agostino e Jung. Ma, senza entrare nel merito delle loro filosofie, possiamo dire che il simbolo è un segno, il quale, ha differenza di quest’ultimo, assume un suo significato proprio.

La parola torre non ha nulla a che vedere con la costruzione con una forma caratteristica posta a presidio di un castello, di un promontorio, di un varco.

Torre è una convenzione linguistica che abbiamo stabilito per significare quel tipo di manufatto.

Però se usassimo la torre come simbolo del coraggio della forza converremo che l’immagine di una bella torre rimanda di per sé all’idea del coraggio. Abbiamo appena visto che chiedere ad una squadra di comportarsi come belve ha un registro diverso che chiedere cattiveria e aggressività.

Perché il simbolo sia tale è necessario un coinvolgimento intimo di chi è chiamato ad interpretare il simbolo. Se immagino una belva la carico di un significato intimo e particolare, diverso da quello descritto dai segni cattiveria e aggressività.

Quello che segno e segnale possono assumere solo per riferimento ad un vissuto comune o per convenzione, il simbolo lo possiede per sua natura e per la relazione che il simbolo assume con l’interlocutore.

Per questo Jung sosteneva che non esistono contenuti simbolici se non in riferimento ad un soggetto che attribuisce un senso al simbolo stesso.

Nel caso della nostra torre: la costruzione porrebbe rimanere per millenni a svolgere il suo ruolo di presidio inattaccabile senza che nessuno senta di associarla all’idea del coraggio. Solo quando un soggetto le attribuirà questo richiamo si crea una relazione tra il simbolo e il concetto di coraggio. Tuttavia la torre non è un segno arbitrario e convenzionale: nelle sue stesse caratteristiche ha un riferimento al coraggio. Una piuma non potrà mai essere simbolo di coraggio.

I simboli sono straordinariamente efficaci perché hanno una funzione pre-concettuale: possono essere utilizzati in luogo del concetto, incidendo maggiormente sull’intimo dell’interlocutore. Utilizzare un simbolo è molto utile con squadre giovanili ed anche per lasciare un margine di riflessione e convinzione al singolo atleta su situazioni complicate.

Dopo una brutta partita potrei parlare alla mia squadra di una generica mancanza di idee, di un atteggiamento sbagliato, potrei contestare punto su punto, spiegare dove abbiamo rinunciato a giocare. Per esempio potrei dire: non ho visto giocare primi tempi, oppure non abbiamo coperto i nostri attaccanti…sicuramente sarei efficace e didascalico perché utilizzereidei segni chiari e univoci, ma il coinvolgimento dei giocatori potrebbe essere pari a quello che hanno davanti alle previsioni del tempo.

Possiamo trasmettere segnali (devi coprire chi attacca) ed esprimerci con segni (la descrizione di quello che è successo).

In questi casi la nostra comunicazione sarebbe neutra, asciutta, analitica.

Se invece dicessimo: ieri ho visto il buio in campo!

Useremo una immagine forte, affidando al buio il concetto delle situazioni negative, e lasceremo ai nostri ragazzi lo spazio di coinvolgere le loro coscienze nella lettura del simbolo utilizzato. Naturalmente saremmo meno chiari e il rischio di fraintendimenti sarebbe più alto. Utilizzare i simboli nella comunicazione sportiva è un rischio: si può ottenere tanto, ma anche perdere tutto.

Sentimenti, la benevolenza : I sentimenti non sono sul piano di simbolo, segni e segnali. I sentimenti non comunicano, ma si comunicano. Un sentimento quindi potrebbe essere significato da un simbolo (un cuore a simboleggiare l’amore) o da un segno (le parole ti amo). Insomma: i sentimenti non c’entrano molto se parliamo di comunicazione.

Perchè allora voglio parlare di sentimenti e comunicazione sportiva?

Perchè senza un sentimento di benevolenza non si può comunicare nulla di positivo!

Più si sale nella gerarchia della comunicazione (segnale – segno – simbolo) più c’è bisogno dei sentimenti di empatia, solidarietà, simpatia, affetto, condivisione… Una gamma di sentimenti positivi che possiamo anche raggruppare sotto il significato di un generico volersi bene.

In termini filosofici, ricordando il concetto del bene in Platone, possiamo dire che la benevolenza è la luce che illumina il significato. Un atteggiamento negativo nei confronti della persona che ci comunica qualcosa, anche che ci sta fornendo solo un segnale tecnico, ci porterà a deformare la nostra lettura dei simboli e dei segni utilizzati. A dire il vero vale anche il contrario: un atteggiamento positivo ci porterà ad ignorare tutte le comunicazioni negative che ci sono affidate e questo, a volte, è il problema delle persone che definiamo ingenue.

Tutte le volte che ho fallito la comunicazione è perché non sono riuscito a stabilire questo sentimento di benevolenza tra me e l’atleta o la squadra che allenavo.

Tuttavia non dobbiamo confondere questo volersi bene con il ricalco della PNL: anche se tutti e due in fin dei conti svolgono la stessa funzione non sono della stessa natura e non hanno la stessa finalità.

Il canale di comunicazione che apre il volersi bene non è quello falso che ci propone la PNL con rapport e ricalco e che il più delle volte infatti è utilizzato per ingannare la gente, vendendo loro il Folletto di cui non hanno bisogno. Non c’è bisogno di distinguere mappe e territorio: la nostra comunicazione funziona ed è autentica se ci prendiamo cura con positività della persona a cui è destinata.

I care!… a prescindere dal fatto che abbia da venderti qualcosa.

La buona disposizione d’animo verso l’altro è come la luce per la vista: illumina gli oggetti in modo che possano essere osservati in tutta la loro completezza. Senza luce tecnicamente vediamo bene, ma continuiamo a brancolare nel buio.

In India fa caldo. Ci sarà meno grano. MasterChef non è a rischio. Pfiuuuuu!

Il clima cambia a (con)causa delle emissioni dei paesi di una parte del globo. Pare proprio che sia confermata quella storia del battito d’ali in una parte del mondo che provoca casini dove non se li possono permettere. In India fa caldo, più caldo del solito, troppo caldo. Loro non possono scegliere tra condizionatori e guerra. La questione è semplice: non riescono a produrre il grano necessario. L’India secondo produttore di grano al mondo (dalle parti del primo si fa la guerra) blocca le esportazioni, nel timore di non poter sfamare la propria popolazione. Senza questa misura gli indiani sarebbero morti di fame, perché è chiaro che i produttori avrebbero preferito vendere a prezzi esorbitanti all’estero piuttosto che sul mercato nazionale. Quindi: prima gli indiani!

La questione non è isolata, la denuncia di Coldiretti dovrebbe suscitare allarme.

Un annuncio, quello dell’India, che fa seguito a quella dell’Indonesia di sospendere le esportazioni di olio di palma, di cui il Paese e il primo produttore mondiale, a causa delle difficoltà sul mercato interno e del rischio di tensioni sociali. Ma anche Serbia e Kazakistan hanno limitato con quote le spedizioni di cereali all’estero ed in Europa una misura simile, fortemente contestata dalla Commissione europea, era stata presa dall’Ungheria. Questo con pesanti effetti per il mais sull’Italia che ne ha importato ben 1,6 miliardi di chili nel 2021.”

Noi però ce ne freghiamo, anche della gloriosa Coldiretti, un po’ di grano lo produciamo, l’altro lo troveremo. E poi parliamoci chiaro: pagare anche un euro in più un pacco di pasta trafilata al bronzo non sarà un problema, almeno non lo sarà per tutti. Pare che a MasterChef abbiano fatto spallucce. La signora Ines a Torbella andrà a comprare una pasta scadente e mai sentita prima in uno dei troppi supermercati di quartiere. Antonio, il salumiere della Garbatella, ha chiuso da tempo, la gente lo guardava strano perché da lui la pasta costava 10 centesimi al pacco più che al Todis.

Eataly, no. Non ne risentirà. È pieno di fichetti che più i prezzi salgono e più comprano.

In Africa ed in Asia non possono fregarsene, non possono permettersi approvigionamenti a prezzi più alti.

Ci sarà fame. Ci saranno altre guerre e disordini, ci sarà un’ondata migratoria.

L’Europa ha accolto cinque milioni di profughi ucraini ed ha fatto bene. Come farà quando quelli di pelle scura saliranno sui barconi?

OKKUPERT – La profezia di Jo Nesbø

E’ uno strano tipo Jo Nesbø, scrittore, sceneggiatore, laureato in economia e prima ancora giocatore di calcio. E’ nato nel 1960 ad Oslo, solo per questo un bimbominkia potrebbe liquidarlo come boomer e chiudere la pratica.

Ora, a parte che ad occhio e croce Jo sarà pure un boomer, ma potrebbe aver ereditato dal concepimento avvenuto negli anni d’oro una certa attitudine a far soldi con le sue buone idee, dovremmo chiedere all’ipotetico bimbominkia di dare un’occhiata alla serie Netflix Okkupert, soltanto per cominciare a riflettere con qualcosa di leggero ed alla portata di chi non sia in grado di leggere Markuse.

Occupied, nel suo titolo yankee, ha una strana presentazione su Netflix. Viene taggata come una serie “distopica”.

Dato che questo, il genere distopico, è un genere che mi intriga, mi sono succhiato le prime puntate, trascinandomi poi in una maratona notturna per completare la serie.

Distopica un piffero! Okkupert, come l’ha chiamata Jo nella sua lingua, prodotta a partire dal 2015, è di stringente attualità.

Il canovaccio è semplice: la Russia, con il sostegno dell’Unione europea, occupa la Norvegia per ripristinare la produzione di petrolio e gas, in risposta ad un crisi energetica causata dal Partito Ambientalista norvegese. Già, perché, nella serie, gli zii norvegesi di Greta, hanno avuto la brillante idea di fermare l’esportazione di petrolio e gas, puntando sulla riconversione energetica a fonti più green.

La trama su cui si dipanano le due stagioni (la terza, per motivi misteriosi, non è stata distribuita in Italia ) è quella che racconta di una resistenza pacifica e politica, in contrapposizione ad una sotterranea lotta armata contro l’occupazione russa. Nel frattempo l’Unione europea sfrutta la situazione per succhiare gas e petrolio ai norvegesi, sui quali però guadagnano i russi.

Politici di spessore discutibile, uomini corrotti, giornalisti d’inchiesta con poco talento e scarsi mezzi, militari, una potente ambasciatrice russa, servizi segreti, amori e sentimenti si alternano sul palcoscenico che pone al centro della questione i grandi temi che oggi appaiono in tutta la loro drammaticità e che sono la linfa di cui si nutre la drammatica guerra in Ucraina.

Il possesso e la distribuzione dell’energia, l’ambiente, il ruolo dell’Unione europea, le reazioni russe, scomposte, grette e muscolari. Quello che manca al tratto “distopico” è il ruolo degli Stati Uniti e di conseguenza della Nato, ma nel 2015 il mondo sperava in Obama, dimenticando che un Presidente US, democratico o conservatore che sia, è prima di tutto un americano.

Ogni giorno, alle 18

Ogni giorno alle 18 durante il lockdown eravamo incollati alla tv per ascoltare le cifre, i numeri dell’epidemia.

Dietro ad ogni numero c’era una storia.

Oggi sembra ripetersi quanto è successo a marzo e aprile, moltiplicato per dieci.

Dietro ad ogni numero c’è una storia, non possiamo dimenticarlo. Ogni giorno alle 18 l’autore pubblicava un racconto breve per i suoi amici.

Questi racconti sono storie, si leggono in pochi minuti, al centro c’è un’opera d’arte, perché ogni cosa ha una storia che la riguarda.

Non possiamo liquidare tutto con i numeri delle 18.

A fianco dell’edizione digitale, su Amazon è disponibile anche l’edizione cartacea.

Freud e Platone

Riflessioni in libertà su un bel libro di Marco Solinas

Platone non è stato un precursore della psicanalisi. Freud non ha attinto a piene mani da Platone.

Con queste necessarie premesse il discorso sembrerebbe chiuso.

Eppure le analogie tra la ricerca  intorno alla Psiche del filosofo e quella dello psicanalista sono sorprendenti e non possono che stuzzicare la fantasia di chi abbia una qualche conoscenza dell’uno e dell’altro. Mi sembra che il libro di Solinas, Psiche: Platone e Freud, Desiderio, sogno, mania e eros sia un ottimo punto di vista sul rapporto tra i due, rapporto del quale si è sempre parlato con troppo pudore, quasi che la “scienza” psicoanalitica non volesse pagare una sorta di tributo alla filosofia antica, o comunque non volesse lasciar spazio a sospetti di contaminazioni.

E’ comprensibile: Platone è un filosofo che ci ha lasciato nel 347 AC. Freud è un medico, opera a cavallo dei due secoli moderni e da subito deve difendere le sue idee riguardo al curare con le parole dalle accuse feroci del mondo positivista. Già Jung concede troppo alla filosofia, figurarsi se lo avesse fatto il fondatore. Citare Platone sarebbe stata la sua fine. Meraviglia piuttosto che i tanti detrattori di Freud non abbiano utilizzato questa leva per tacciare il fondatore della psicoanalisi di ogni nefandezza antiscientifica. Del resto i detrattatori di Freud sono in gran parte anche avversari del positivismo e del materialismo, non avrebbero potuto accusare il loro avversario di connivenza con il nemico.

Solinas indaga questo spazio libero con precisione e competenza. Al suo libro si possono rimproverare un linguaggio e un rigore troppo accademici e troppo poco divulgativi, ma i concetti sono chiari e, dal mio punto di vista, corretti.

Si comincia partendo dalla analogie tra i due che non sembrano essere soltanto apparenti: la tripartizione dell’anima in Platone che trova un riscontro nella distinzione freudiana tra Es, Io e Super-io. L’analogia è immediatamente evidente nel numero tre.

La tripartizione di Platone pone due delle tre anime sullo stesso piano, mentre una terza è assunta a guida e giudice delle altre due. Le tre componenti platoniche sono l’anima irascibile”, l’impulso ad agire; la “concupiscibile”, l’appetito e il desiderio; e la “razionale”, che deve fungere da guida alle altre. Il mito dell’auriga con i due cavalli, uno che tende al cielo, l’altro che tira verso la terra, è la plastica raffigurazione della costruzione di Platone.

I tre attori invocati da Freud riproducono uno schema qualitativamente diverso, con l’Io che è la sfera che corrisponde alla parte cosciente della personalità. Anche qui la funzione sovraordinata è quella di mediare tra le due opposte sfere del Super-io e dell’Es. L’Io è la faccia, la maschera, che compone un equilibrio unitario con le spinte provenienti dal mondo esterno, l’ es «rappresenta la voce della natura nell’animo dell’uomo».

Insomma, i due pensatori fanno in tre l’anima umana, ma in Platone vengono distinte tre stanze tutto sommato sullo stesso piano dell’edificio, Freud ne pone una nel sottoscala, l’altra al pian terreno e la terza come facciata che si presenta al mondo.

Il discorso si fa decisamente più interessate e rimescola le stanze quando si mette a fuoco la dottrina dei desideri esposta da Platone.

In particolare quando leggiamo, nel libro IX della Repubblica, della funzione rivelatrice dei sogni è difficile non essere tentati dallo stabilire una diretta connessione tra Freud e Platone.

Se pensiamo all’attenzione, tanto filosofica quanto rivoluzionaria, del pensiero di Freud riguardo a desideri, rimozione e repressione non possiamo non ricordare: “la tematizzazione platonica del sogno come riemersione dei desideri repressi che farà in Freud la via regia verso l’inconscio”, scrive giustamente Mario Vegetti nella Presentazione, riassumendo il cuore della indagine di Solinas e il punto di contatto più evidente tra la concezione platonica e quella freudiana.

Il sogno quindi, appare la via d’ingresso a quello che Freud chiama inconscio e che per Platone è la rivelazione della natura dell’uomo, nell’aspetto che sfugge alle convenzioni sociali, al controllo, alla ragione. L’uomo peggiore è colui che da sveglio si comporta esattamente come l’abbiamo descritto in sogno, scriverà a proposito il filosofo.

Sotto l’uomo che vediamo di giorno c’è un uomo notturno che riaffiora nel sogno.

La dialettica tra questi due uomini, quello notturno e quello diurno, è di estremo interesse per il filosofo quanto che per lo psicanalista.

Tripartizione dell’anima e sogno come porta di accesso all’uomo sommerso, che tutto sommato è il vero uomo. Fin qui le analogie che appaiono incontrovertibili.

Le distanze incolmabili tra filosofia platonica e psicoanalisi emergono però tanto nel metodo che nelle finalità che muovono l’analisi dell’anima in Platone e Freud.

Freud è un medico e la sua finalità è terapeutica. Platone è un filosofo, si occupa dell’ordine cosmologico, dell’organizzazione della Repubblica e delle anime dei cittadini. Questi tre ordini sono visti come una matrioska e quando non entrano perfettamente l’uno nell’altro si crea una patologica, politica, sociale, personale.

Per Platone, l’attenzione terapeutica è tutta centrata nella sfera politica e sociale. L’equilibrio dei cittadini e il buon funzionamento della polis sono valori simmetrici, se non funziona il cittadino non funziona la polis e viceversa. Ognuno deve stare al suo posto, tanto che c’è chi obietta: chi si occupa della felicità dei custodi? Socrate/Platone risponderà che la felicità dei custodi è fare il proprio dovere. L’ordine sociale determina l’ordine psichico. Punto.

C’è di più: polis e psiche sono l’una immagine dell’altra. La Polis è anche la cura dell’anima e le restituisce armonia quando ognuno è assegnato al compito che gli appartiene per costituzione ed indole. I governanti entrano nell’intimo del cittadino fino a stabilirne la corretta educazione, così come la ragione controlla i desideri inopportuni. Forse non a caso si è parlato di comunismo di Platone, in realtà l’ateniese era uno stucchevole conservatore.

Dal lato opposto Freud teorizza la prevalenza della struttura edipica, l’isolamento ermeneutico del soggetto e la conseguente soluzione nella pratica analitica frontale. Potremmo parlare del ruolo del transfert, ma questo resta un fatto tra terapista e paziente.

Gli uomini che si sottopongono alla cura psicoanalitica non sono migliori degli altri e la psicanalisi non aiuta a costruire una società migliore.

Freud non è neanche sfiorato dall’idea di evocare una società armonica per sviluppare personalità armoniche. Non c’è nessuna tensione morale o politica in Freud.

Il libro di Solinas si conclude opportunamente con una sfida della metapsicologia alla metafisica che ha una significativa ricaduta proprio sul piano morale: la dinamica psichica tratteggiata da Platone rimanda alla contemplazione dei modelli ideali “che fondano del resto il modello vero e assoluto di giustizia rispetto al quale la giustizia interiore e la stessa giustizia di natura non rappresentano che un pallido riflesso”. Sullo sfondo l’idea del bene che è causa di tutto ciò che è retto e bello (Repubblica 517bc). D’altra parte Freud con la sua certezza: i principi della coscienza morale sono privi di ogni fondamento filosofico, sono illusioni e manifestazioni deliranti. Dio, la religione, non sono altro che psicologia proiettata nel mondo esterno (Cfr. Freud, Piscopatologia della vita quotidiana, OSF, vol. 4. Pagg. 279, ss).

Tra Platone e Freud non c’è da scegliere. Le due impostazioni, per quanto affascinante sia il confronto, restano su piani epistemologici considerevolmente diversi.

Nel dubbio, però, mi permetto di scegliere Platone. La sua indagine a quasi due millenni e mezzo di distanza da quella di Freud, appare più moderna, nei suoi tratti essenziali e sgrossati dal tempo in cui Platone scrive e soprattutto dice.

Dobbiamo ricordare che lo scritto di Platone era la punta di un iceberg, secondario rispetto alle dottrine non scritte. Grazie alla scuola di Tubinga, in Italia a Giovanni Reale, siamo in grado di ricostruire qualcosa delle dottrine non scritte, che forse allontanerebbero ulteriormente Platone da Freud.

Nel campo degli studi sulla mente e sull’anima, Jung e forse Bateson appaiono, nell’essenza, più platonici di Freud, ma quello di Solinas è un viaggio che andava fatto una volta per tutte ed è stato un viaggio piacevole e stimolante.